Manuela Marascio
Raccontare a distanza di giorni un’esperienza avvolgente e penetrante come il Torino Film Festival ha il sapore agrodolce e le tinte sfumate di ogni ricordo sospeso nella dissolvenza. Tornare con la mente alle entrate affollate dei cinema, all’odore dei vicini di poltrona, al rumore delle pagine della programmazione sfogliate da mani sudate, è come rivedere scorrere tanti fotogrammi al rallentatore, e in questo moto l’intera città, con le sue luci prenatalizie, i tram che s’insinuano tra le strade ciottolose del centro e il profumo di cultura misto a quello delle caldarroste, assume nella mente le sembianze di quello che Paolo Virzì, direttore artistico di questa edizione del festival, ha definito «un mondo diverso da quello al quale siamo abituati, in questi tempacci di crisi nei quali è così difficile far circolare le cose belle, sopraffatti come siamo dalla rassegnazione al peggio». Il mio percorso a ritroso vuole essere una semplice passeggiata tra alcune pellicole non scelte per merito o importanza, ma lasciate rotolare sulla scia del caso, in base alla quantità di zucchero presente nel cappuccino delle 8.45 o al potere rigenerante dei raggi del sole di cui riempirsi prima di chiudersi in sala.
Uno dei primi film che ho avuto modo di apprezzare è stato 2 automnes 3 hivers, del francese Sébastien Betbeder; è stato inevitabile affezionarmi alla goffaggine disperata e inconcludente di Vincent Macaigne nel ruolo di Arman, trentatreenne che vede la sua vita mutare da un giorno all’altro in seguito a una corsa mattutina al parco, dove incontra Amélie. I due personaggi raccontano la propria storia all’interno di una struttura narrativa a episodi, ciascuno dei quali racchiude in sé una determinata fase di una ben più ampia e articolata condizione esistenziale di alternanza tra solitudine e rapporto di coppia, amplificato dalla collaterale e ben più rosea storia d’amore tra l’amico Benjamin e la sua fidanzata. Potrebbe a prima vista sembrare la tipica riflessione sui turbamenti psicologici di una generazione senza speranze né aspettative; ma, se è vero che Arman invade lo schermo con tutta la trasandatezza e la sporcizia tipica dell’uomo in tempi di crisi, tuttavia il modo in cui lui, così come Amélie, si raccontano annulla i cliché per restituire alla sensibilità comune la sincerità di un’esistenza precaria sì ma comunque vera ed esperibile nella quotidianità. Così commenta il regista: «Volevo fare questo film per condividere alcuni aspetti della società in cui vivo; per dare testimonianza, con umiltà, di un’epoca che volge al termine, di come cambia il modo in cui le persone si relazionano».
Proseguiamo con una pellicola italiana che si è aggiudicata il Gran Premio Torino: La sedia della felicità, di Carlo Mazzacurati, che ha voluto raccontare “un paesaggio umano e fisico”, il nordest italiano, attraverso una storia che ai toni comici mescola un latente senso di catastrofe «in cui sembra che tutti stiamo cadendo, con l’energia e la voglia di riscatto che nonostante tutto si sente nell’aria». Isabella Ragonese e Valerio Mastandrea sono Dina e Bruno, un’estetista e un tatuatore che si ritrovano compagni di un’avventura paradossale, ai limiti del grottesco, che molto ha dell’impostazione favolistica basata sulla ricerca dell’oggetto magico, tra prove da superare, ostacoli, aiutanti e antagonisti, tra cui spicca padre Weiner, interpretato da un avido e instancabile Giuseppe Battiston. E tra la miriade di personaggi che colorano e scandiscono le tappe di questa impresa non si può non sorridere nel ritrovare i volti ben noti di Katia Ricciarelli, Raul Cremona, Marco Marzocca, Milena Vukotic, Silvio Orlando, Antonio Albanese e altri ancora.
Il Festival mi ha anche dato la possibilità di incontrare attori del calibro di Alessandro Gassmann, ospite d’eccezione in occasione delle repliche a teatro del suo Riccardo III. Giancarlo Scarchilli ci ha proposto la sua opera dedicata allo spettacolo: «A convincermi a realizzare un documentario sul lavoro di Alessandro Gassmann è stata, come prima cosa, la sorpresa provata ogni volta da spettatore di fronte al suo talento di regista teatrale». Essere Riccardo… e gli altri è testimonianza di tutto ciò che precede il debutto, dalle letture a tavolino, ai primi passi sul palco, alle prove di memoria, tutto filtrato attraverso lo sguardo e il ricordo di Gassmann di fronte allo specchio del suo camerino, mentre si prepara a diventare Riccardo III.
Tra i film in concorso, C.O.G., di Kyle Patrick Alvarez. Un racconto di formazione che ha per protagonista un’eco lontana del giovane Holden di Salinger, David, universitario intellettuale che sceglie di cambiare drasticamente vita viaggiando dall’East Coast all’Oregon, dove sostituisce ai libri e alle speculazioni il lavoro duro, che sporca le mani. Scappa dalla sua famiglia senza sapere bene cosa cercare altrove, ma attorno a sé trova diffidenza, incomprensione, in certi casi ostilità. Difficile dire se questa condizione di isolamento sia veramente così sofferta; del resto è proprio la consapevolezza di essere diverso a condurlo verso una nuova maturazione. Le esperienze vissute, infatti, dalla convivenza con gli amigos addetti alla raccolta delle mele, al rapporto con Curley dai dubbi gusti sessuali e a quello con il fervido credente Jon, penetrano dentro quella corazza di buona educazione, intellettualismo e moderazione per sconvolgere sempre di più la confusione emotiva che si agita in lui e che si concretizza in un perpetuo moto di fuga.
Esordio alla regia per Pierfrancesco Diliberto, in arte “Pif”, con La mafia uccide solo d’estate, viaggio nella Palermo degli anni ’70-’80 fino ai primi anni ’90, in cui la mafia viene raccontata attraverso gli occhi di un bambino, Arturo, concepito nella notte della strage di via Lazio e nato nel giorno in cui il mafioso Vito Ciancimino viene eletto sindaco. «Ma come è possibile che a Palermo la mafia entrasse così prepotentemente nella vita delle persone e che in pochi dicessero qualcosa?»; questa è la domanda che si è posto Pif, ed è proprio il senso di incredulità e scalpore che aleggia per tutto il lungometraggio, in una Sicilia calda in cui le voci che circolano vanno dalla televisione alla gente per strada, che preferisce non sentire e non vedere, perseguendo l’ostinazione cocciuta anche di fronte alle più lampanti verità. Arturo si confronta per tutta la vita con la sua sete di conoscenza: ciò che prima era solo un nome sussurrato tra i bar e i banchi di scuola, la “mafia”, si concretizza poi nelle targhe commemorative affisse agli angoli delle strade. Arturo cresce alimentando l’amore per la bella compagna di classe Flora e scoprendo a poco a poco certi meccanismi che regolano le dinamiche dello Stato italiano; fatti clamorosi nel panorama politico vengono così riletti dapprima con la leggerezza e l’ingenuità di un sorriso infantile, poi con la sempre più marcata consapevolezza dell’uomo adulto, attivo, partecipe.
Potrei dilungarmi nel raccontare ancora di alcuni lungometraggi visti e in parte apprezzati. Ma preferisco chiudere in bellezza con quello che ritengo il simbolo di ogni scavo interiore nella memoria e nel sogno. È quasi indescrivibile l’emozione provata nel rivedere in una sala gremita la versione di 8½ restaurata dal Centro Sperimentale di Cinematografia e da RTI-Gruppo Mediaset. Sandra Milo, ospite d’onore attorniata da una banda che suonava il celebre motivetto del film, ha ricordato, prima della proiezione, il piacere del sogno e del gioco che Fellini trasmetteva, mentre Mastroianni, così affascinante e affabile, riusciva a parlare di tutto meno che d’amore. Ancora una volta, le luci si spengono su questo capolavoro senza tempo. È una festa la vita, viviamola insieme.