Era il 9 ottobre del 1963. Morirono 1910 persone. Mezzo secolo dal disastro del Vajont. È l’anniversario della tragedia più evitabile e drammatica che la storia d’Italia annovera.
La telecamera del mensile Focus, in un incredibile reportage multimediale, percorre i cunicoli dove, fino al 9 ottobre veniva raccolta l’acqua del bacino artificiale della Sade, società allora, appena nazionalizzata dall’Enel. Immagini inedite dei tunnel interni della diga, visitati e ripresi grazie a un drone-cam. Li dove non si può andare a piedi neanche oggi, c’è per noi, un drone r
E ancora i vecchi binari, usati durante la costruzione di questa grande opera che diede vanto all’Italia. Immagini storiche, in bianco e nero di quel cantiere, riprese dalla Sade per un documentario. Operai al lavoro. Tanti. Quattrocento, accorsi da tutta Italia. E l’interno della diga a doppio arco, alta 276 metri. La più alta del mondo. In quel periodo era un’opera di raffinata tecnologia che aveva avuto un solo grande difetto, quello di trovarsi nel posto sbagliato, sul monte Toc, dove il giovane geologo Edoardo Semenza, figlio del progettista Carlo, aveva individuato un’antica frana, mai stabilizzata, che rischiava di crollare.
Un allarme rimasto inascolta
Una diga incastonata in una montagna di argilla che a contatto con l’acqua, si scioglie e il 9 ottobre 1963, viene giù.
Il progetto prevede la costruzione di una diga alta 200 metri e di un serbatoio con una portata di 58 milioni di metri cubi d’acqua. Successivamente le misure vengono cambiate, aggiungendo altri 61 metri all’altezza dello sbarramento e arrivando a 150 milioni di metri cubi di portata (cioè due volte e mezzo la somma della capienza di tutti i serbatoi idrici delle Dolomiti).
Meno di un mese prima della tragedia, la frana. Un pezzo di montagna scivola di 22 centimetri. I funzionari della Sade si spaventano e iniziano a svuotare il bacino idrico per far scendere il livello del lago sotto i 700 metri, accelerando così il crollo della montagna.
Continuano gli smottamenti. Si aprono crepe. Gli alberi si inclinano. Gli abitanti della valle sono spaventati. La Sade-Enel continua a sottovalutare il pericolo.
Alle 22.39 accade la tragedia. In quel momento da questa diga una quarantina di operai, con grandi riflettori sorveglia la montagna, che sta lentamente venendo giù. Un movimento inarrestabile. Intorno alle 22.00 c’è l’ultimo contatto tra gli uomini del cantiere e l’ingeniere Alebrico Biadene del servizio dig
Mezz’ora dopo la montagna crolla verticalmente sulla diga costruita in prossimità dei centri abitati di Longarone, Erto e Casso. E quegli operai saranno i primi a morire.
La furia della montagna si abbatte sull’invaso al punto da innalzare una parete di fango e detriti alta 200 metri. In pochi, terribili istanti, le comunità del Vajont vengono letteralmente spazzate via da un fiume incontenibile che alla fine, lascerà dietro di sé solo devastazione e morti.
A tutti era ben noto il rischio che riguardava la costruzione dell’invaso e il suo riempimento.