di Michele Marsonet. Fascino dell’Oriente e nostalgie post-sovietiche. Ecco il sunto di un rapido viaggio nel Kazakhstan per visitare un’università locale con cui il mio ateneo ha molti rapporti di cooperazione. Si arriva ad Almaty – la vecchia Alma Ata quando ancora esisteva l’URSS – con l’impressione di essere in una delle tante città americane tutte uguali. Grattacieli ovunque, fast food a ogni angolo, automobili di lusso che sfrecciano su strade a quattro corsie.
Capisci di non essere negli States sentendo che tutti parlano russo, salvo passare all’inglese quando lo straniero dà chiari segni di non comprendere ciò che dicono. Non sempre, ovviamente. Succede in albergo e all’università, ma taxisti e negozianti continuano sorridendo a parlare russo, a volte scusandosi. E poi i tratti tipicamente orientali dei kazakhi sono bilanciati da un gran numero di visi con capelli biondi e occhi celesti, a riprova del fatto che, in loco, quella russa è sì una minoranza, però assai consistente.
E’ stupefacente notare quanto sia forte l’impronta lasciata dall’Unione Sovietica, che pure si è dissolta molti anni fa. E in Kazakhstan – mi spiegano – non ha lasciato un ricordo tanto spiacevole. Dopo tutto proprio qui, a Baikonur, c’è il grande cosmodromo che costituiva la principale base del programma spaziale sovietico, tuttora sotto amministrazione russa. E la Cina, per parafrasare il titolo di un celebre film diretto da Marco Bellocchio nel 1967, è vicina sul serio. Basta guardare la carta geografica per accorgersi che il confine con la Repubblica Popolare si trova a poca distanza.
Per un Paese come questo, di dimensioni enormi e con solo 16 milioni di abitanti, l’espansionismo cinese preoccupa assai più delle mire egemoniche della Russia, con la quale esiste del resto un rapporto di cooperazione che risale ai tempi degli zar. La lingua di Tolstoj è rimasta veicolare, anche se il kazakho viene insegnato in abbinamento col russo nelle scuole. Lo si sente parlare nelle occasioni ufficiali, ma la conversazione normale si svolge in russo.
Approfittando del fatto che si tratta di una lingua turca occidentale, il governo di Istanbul sta facendo grandi sforzi per aumentarne la diffusione, in linea con le ambizioni da grande potenza regionale che la Turchia manifesta da quando Erdogan è al potere. C’è pure il progetto di passare dai caratteri cirillici a quelli latini. Ma – mi spiegano i colleghi della Ablai khan University – è utopistico pensare che la lingua nazionale possa rimpiazzare il russo.
I motivi sono presto detti. Delle delegazioni in visita alla Ablai khan durante il mio soggiorno la maggior parte proveniva dalle tante Repubbliche ex sovietiche. Non solo da quelle asiatiche, ma pure dalle lontane Ucraina e Bielorussia. Per uno straniero è sorprendente notare due docenti bielorussi dell’Università di Minsk che conversano amabilmente con i colleghi kazhaki senza alcun bisogno di interpreti. Parlano a tutti gli effetti la stessa lingua, e lo stesso vale per lituani, azeri e georgiani. I rapporti economici sempre stretti favoriscono tale tendenza, che non pare contrastata da rivalse nazionali come quelle frequenti nelle nazioni del Baltico o del Caucaso.
La specificità kazhaka emerge di più sul piano culturale. Non tanto grazie ai discorsi ufficiali che Rettore e autorità pronunciano nella lingua nazionale, subito seguita dalla traduzione in russo. Si tratta piuttosto dei costumi che gli studenti indossano per ricevere gli ospiti. Molto belli, richiamano un passato di tribù nomadi che percorrevano la steppa, e in seguito profondamente influenzate dalle invasioni mongole che qui hanno davvero lasciato il segno. Lo si ritrova nei tratti somatici solo un po’ più dolci rispetto a quelli della vera Mongolia. Nella carne di cavallo che viene servita in tavola come piatto comune (destando parecchie incertezze negli occidentali, incluso il sottoscritto). Nella musica monotonale noiosa solo per chi non presta attenzione, ma affascinante se ci si sforza di penetrare lo spirito che la anima.
L’eredità sovietica è ben presente anche nelle aule e nel museo dell’Università, dove campeggiano ovunque i ritratti dell’eterno presidente Nursultan Nazarbayev, già segretario del partito comunista ai tempi dell’URSS. I ritratti sono nello stile sovietico classico, anche se il rosso è stato sostituito dal celeste e dal giallo oro della bandiera nazionale. A rammentare il passato recente provvedono inotre alcuni professori anziani invitati a tenere discorsi in onore degli ospiti. Hanno il petto ricoperto di medaglie come i generali sovietici, e due di loro dicono con orgoglio di aver combattuto i nazisti nella seconda guerra mondiale. Uno mi rammenta in maniera sorprendente la figura di Mikhail Suslov, per quanto con tratti più orientali.
Il Paese, notoriamente ricchissimo di materie prime, dimostra una certa apertura verso il mondo occidentale e la volontà di intrattenere rapporti cordiali con la confinante Cina. Nelle scuole, oltre il russo e quella nazionale, si insegnano più lingue e non è raro trovare studenti che parlano italiano in modo corretto. Restano comunque privilegiate le relazioni con le Repubbliche ex sovietiche e in primo luogo con la stessa Russia. Una situazione ben diversa da quella che abbiamo sperimentato in Europa, dove l’URSS evoca soprattutto ricordi di filo spinato, di colonne di tank in marcia, di repressione delle identità nazionali.
E’ allora importante rammentare che le esperienze storiche vengono vissute in modo diverso nelle varie parti del mondo. Il giudizio – positivo o negativo – è in larga parte determinato dal contesto culturale e geografico in cui si è inseriti. Una lezione da non dimenticare, soprattutto per coloro che credono a una Storia con la “S” maiuscola che procede trionfante prescindendo dalle condizioni concrete in cui operano gli esseri umani.
Featured image, cavalli a Oblys di Mańğystau, fonte Wikipedia.