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Viaggio nella memoria

Creato il 21 febbraio 2014 da Cultura Salentina

21 febbraio 2014 di Augusto Benemeglio

Nicola Apollonio Aradeo punto e a capo
Dopo vent’anni  esatti, Nicola Apollonio, scrive sulla cittadina salentina che gli ha dato i natali, il  suo secondo pamphlet, “Aradeo punto e a capo”, una radiografia della sua città, a cavallo tra storia e cronaca, amara e sincera, cruda, oserei dire, scritta tra l’assorto e il combattivo, sul filo di una memoria che diventa arte.  In un linguaggio semplice, discorsivo, immediato, asciutto, incisivo, che da sempre distingue e caratterizza il mitico fondatore, ideatore e direttore di Espresso Sud, vecchio glorioso cronista di tante testate nazionali come Oggi, Il Corriere d’Informazione, La Domenica del Corriere, Roma, Il Giornale d’Italia, Il Messaggero, Il Resto del Carlino, Gazzetta del Mezzogiorno, Libero, talora caustico e sferzante fino alla spietatezza,  scrive della decadenza morale e umana, degli abissi e del disagio, oserei dire della disperazione quasi agonica  della sua amata cittadina, Aradeo, che si trova sul versante  ionico delle Serre, tra l’altopiano di Cutrofiano  e le Serre Campilatini. Il suo è un percorso tutto basato sul filo  della memoria, la memoria delle piccole cose  della vita (“Le case erano vecchie, piccole e fatiscenti…con i tetti “a limbrici“. Senz’acqua e con poca luce. C’erano le donne, allora, che andavano a prenderel’acqua alla “funtana“, con recipienti di terracotta o di zinco (le menze), mentre la “cummare“,vicina di casa, badava ai più piccini, seduti per terrao adagiati su un pagliericcio di sacchi”,vds.pag….), un passato nel quale si esprimeva un paese giovane e desideroso di agire e di competere. Il vero  miracolo economico ( che poi verrà)  era il lavoro, la gente aveva voglia di rinascita, di trasfigurazioni rispetto alla fame e alla guerra, la gente si mostrava capace di provocare domande, di suggerire prospettive, e quella gente avrebbe continuato a  farlo anche oggi, probabilmente, ci lascia intendere Apollonio.

Il suo è il   tentativo, – pur nella denuncia  di storture e vizi endemici  quali la  neghittosità, l’insolenza, l’arroganza, l’immobilismo, l’indifferenza e l’ invidia –  di una ricostruzione mentale, o, se vogliamo, la limpida analisi e ricostruzione di un fallimento, nella visione disarmante di un momento storico che appare senza sbocchi, senza futuro, che non offre che annichilimento, negazione di ogni gesto libero. Siamo sempre più circondati dai pigliainculo e dai quacquaracqua di memoria sciasciana, anche se lo scrittore siciliano è stato clamorosamente smentito nella sua profezia. Credeva he la latitudine estensiva della palma fosse un’annunciata tropicizzazione dell’Italia, invece il sud è sempre più separato e arroccato nei limiti della sua irredimibile antropologia, imprigionato nei confini di una sconfitta che appare definitiva, che ha cancellato ogni tonalità di grigio e ogni germoglio: il sud, ahimè, dobbiamo dirlo, scrive Piccirillo ne “La terra dei sacerdoti”, è compattamente e uniformemente un inferno, come aveva denunciato  a suo tempo Bocca, e noi tutti ci eravamo indignati, io per primo. “Qui la natura è agonica, terra dei fuochi, immondezza purulenta, destinata ai traffici peggiori della  bieca globalizzazione”.

Nicola Apollonio, con questo pamphlet, pur con la morte nel cuore, ammette che non esistono possibilità di riscatto: qui noi viviamo  ancora nella straziante e disperante irrisolta questione meridionale, in continua ricerca del passo per  raccontarci, per capirci, trovare una misura che dia voce alle sanguinanti e urlanti ferite del sud. Noi siamo solo in attesa della nostra dissoluzione, questa è la verità, a meno che…non avvenga un altro miracolo, una sorta di cena di Emmaus: “Ci sono rade luci sulla collina/ e c’è un tempo millenario che ci raccoglie/ tutti intorno ad una cena/ al gesto antico di metterci a tavola e spezzare il pane”.

Noi ( e in particolare i giovani ) siamo prigionieri di una ragnatela di maglie strettissime senza via d’uscita, per tutta una serie di fattori che vengono esaminati man mano, in continue flashes-back tra brandelli di memoria e incatenamenti, stasi, del presente. Noi tutti, non solo  Aradeo, abbiamo bisogno di “ricostruirci” e lo possiamo fare solo con un atto di fede e un estremo spirito di sacrificio, tutti valori  che si sono perduti e che i vecchi aradeini  possedevano come caratteristiche peculiari. Infatti non a caso l’origine del nome della cittadina salentina, Ara Deo, – secondo Giacomo Arditi, studioso dell’800 – significa “ Altare di Dio”. E il suo stemma è  un altare coperto da una tovaglia con calice ,l’ostia e due candelabri accesi, tutti chiari simboli della cristianità e della umile serena semplicità dell’esistenza : “Bastava poco per essere felici e dimenticare le ristrettezze imposte dagli eventi. Per i bambini, un trenino acquistato nel negozietto “te lu Monacu“…una “grattata“ di ghiaccio che poi veniva colorato con una specie di sciroppo di menta o di amarena; un giro sulla “giostra“ posta nello spiazzo dove ora si trova il mercato coperto; un pallone fatto di carta o di pezze, con cui si giocava per strada”( vds.pag.19…)

Il vecchio cinema Italia di don Renato Carallo e di “mesciu” Clemente Congedo, l’acrobata che andava in motocicletta su un filo, il circo equestre di Pagnotta, il gelataio ambulante, la banda per le feste di San Nicola, dell’Annunziata, di San Biagio e San Luigi…Ogni cosa, ogni ombra, ogni immagine, per Apollonio, si accendeva come un seme di luce, ogni parola palpitava e tutto aveva un’anima profonda, e il cuore, l’oro del cuore, si spargeva nella comunità. C’era un senso corale, un afflato, ognuno provava per l’altro un vivo sentimento d’amicizia. Si era tutti sulla stessa barca e tutti si doveva remare in una direzione verso  un approdo sereno. E il senso della fiducia nell’altro  era illimitata ( “Mai un furto,

mai uno scippo, mai una rapina. Quando si usciva da casa, non c’era nemmeno bisogno

di chiudere la porta, al massimo si lasciava la chiave nella toppa”).

Poi le cose sono mutate, ma anche all’epoca del primo “pamphlet”di Apollonio (“Aradeo ieri, oggi e… (1993), in cui “era difficile decifrare ciò che negli anni a venire 

sarebbe potuto accadere in questo nostro paese sorretto più da sterili speranze che da concrete certezze, Aradeo appariva ancora voglioso di un qualche riscatto…invece

cominciò a farsi strada una mentalità tipicamente omertosa, la sola probabilmente che consentisse di non disturbare i manovratori e di poter aumentare pian piano il volume

dei propri affari. Nu’ bisciu, nu’ sentu e nu’ sacciu.”

Apollonio non è certamente tenero con i suoi concittadini, ma dopo aver cantato ( forse  “mitizzato”?) un mondo irrimediabilmente perduto, in cui si era poveri e ancora felici, in cui nella città c’erano le brocche dei biancospini, gli uliveti, e i sobborghi azzurri fatti di firmamento, le piccole e modeste case, le botteghe degli artigiani, le giostre, la noria delle domeniche, i muretti a secco che screpolano l’ombra di un paradiso, ecco un destino fatto di nulla. Spariti quasi del tutto i falegnami, gli elettricisti, i sarti, i contadini, i calzolai e i fabbri, c’è rimasto un vuoto di memoria un analfabetismo morale e funzionale ( Oggi l’Italia è prima in classifica tra i paesi OCSE ), la mancanza di pensiero e giudizio personale, anche se rimane quel  “male incurabile dell’individualismo. Una brutta malattia che si riverbera anche nelle attività commerciali, negli studi professionali, nel modo di fare impresa e persino nei rapporti personali. Tutto ruota intorno a quel brutto sentimento che è l’invidia.  

E poi c’è  la difesa della memoria antica, del costume, della “banca dei sentimenti più intimi” che viene devastata  con l’abbattimento della vecchia Chiesa Madre. (Dissero che era “fatiscente e pericolosa“, che non c’era “neanche un motivo di monumentalità“ che potesse giustificare…Di sicuro, però, quella chiesa rappresentava una buona parte della vita, degli affanni, della religiosità della nostra gente. Era l’archivio segreto di tanti amori, di tante gioie, di tanti dolori che, nel corso di un paio di secoli, il popolo di Aradeo aveva lì custodito. Per molti versi, era stata la nostra storica “banca dei sentimenti“ più intimi,

Ecco che Nicola Apollonio si rivolge ai giovani, – fin dalla citazione in epigrafe – ai quali dedica molte pagine del suo “pamphlet”. «Saper ascoltare e valorizzare il mondo giovanile è un dovere primario di tutta la società», dice Papa Francesco.  Ma per i giovani sembra esserci solo ipocrisia e un sudario opprimente in attesa della dissoluzione, e soprattutto la loro solitudine solipsistica (“I giovani sono isole del pensiero, del sentimento, che non si uniscono“, ha detto Papa Benedetto). Insomma, sembra non esserci speranza se non la fuga dalla propria città. “E gli adulti sono parte in causa di questa caduta della speranza, non solo perché si sono dati finora regole sociali egoiste e miopi, ma soprattutto perché non sanno riconoscere i giovani, non li chiamano, non li invitano a partecipare (vds.pag.…)e le istituzioni, talvolta così lontane dal paese reale, appaiono ai giovani ancora più distanti e incapaci di risolvere o solamente capire i loro problemi….  In  questa malinconia del confronto tra l’Aradeo di vent’anni prima e, ancora, di quella di sessant’anni fa, alla fine Nicola Apollonio, misurando la distanza fra allora e oggi, offre comunque ai giovani un’ancora di speranza:  “La nostra è una terra difficile ma  anche in una terra difficile tanti ostacoli possono essere vinti, se oltre gli ostacoli si ha il coraggio di gettare il cuore». Non rimanete seduti dinanzi ad un piccolo boccale di birra fantasticando chissà quale anonima destinazione, o, pensando che i problemi comunque si risolvono perché vi è “dovuto”. Lottate, abbiate coraggio, metteteci un pezzettino di cuore, cioè di volontà ferrea, e  raggiungerete le vostre mete, otterrete i risultati desiderati.

Purtroppo, i giovani non sopportano i sacrifici. Sacrificio è una parola che a loro sa di negazione di sé, di rinuncia drastica. Eppure sacrificio significa “rendere sacro“.

È una capacità molto importante, nella vita, saper rimandare la gratificazione, lavorare in vista di qualcosa che non è immediato. Non perdere di vista il traguardo e saper prolungare l’impegno anche se non si ottiene qualcosa subito. Serve oltre.  Serve a dare il giusto valore a quello che raggiungiamo.

E’ stato scritto per Aradeo, questo libro di luci sospese, di ricerca di se stesso, della propria storia, delle proprie radici, di delirio circolare, di iterazioni  ( Città, mia città, stele oltraggiata, pietra disonorata, nome coperto di sputi, la tua storia è la mia storia, il tuo destino è il mio destino, io ti descrivo in modo balbettante, senza né capo né coda, che venga,, dopo di me, un giovane profeta e abbia la tua visione vera compatta unica monolitica e faccia di te la nostra gloria), ma in realtà riguarda tutti noi.  Per ripartire – diceva Savinio – l’Italia ha bisogno di addestrare le persone normali  a determinare da sé quello che è bene e quello che è male, quello che è bello e quello che è brutto, si tratta di dare agli italiani un peso specifico morale e mentale, di fare, ognuno di loro, un individuo pensante  e giudicante. Un cittadino.

E, infine, Nicola Apollonio  dice a tutti i concittadini, a tutti gli uomini  della sua generazione : non è facile capire ciò che siamo diventati, abbiamo disceso ormai tanti gradini, quasi tutti verso l’abisso. Ora c’è rimasto a disposizione solo un viaggio ed è quello della memoria.

Roma, 15 febbraio 2014                                                    Augusto Benemeglio

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