"Era un mattino radioso in quel giorno di tregua, e questa giovane coppia - il ragazzo con la mitragliatrice troppo grande per lui e la ragazza con la ferita sul viso, la fascia della croce rossa e la borsa del pronto soccorso - mezzo bohemien, mezzo proletaria, in abiti logori, mi ha affascinato, mi ha colpito il realismo dell'immagine."
- Russ Melcher -
A volte succede che una foto riesca a catturare quella che può essere chiamata "la verità di un istante". Coglie quel preciso momento in cui per la strada, per le facce, passa quella rabbia, quella felicità quel dubbio che, fermato in un'immagine, poi diventerà per sempre leggenda, quel mito che nessuna menzogna di Stato potrà mai più recuperare completamente.
"Se la foto non è buona" - asseriva Capa - " vuol dire che il fotografo non era abbastanza vicino". Già, vicino. Vuol dire tante cose, vicino. Ad ogni modo, chi ha scattato quest'immagine, durante l'insurrezione ungherese dell'ottobre del 1956, era vicino. La foto, erroneamente attribuita a Jean-Pierre Pedrazzini e pubblicata sul Paris-Match del 10 novembre dello stesso anno sotto il titolo "Gli eroi di Budapest", raccoglie dentro di sé tutto l'intreccio di passioni e di speranze confuse che vivevano quei combattenti, i più determinati ma anche i più fragili. Un giovane, armato di una mitraglietta di fabbricazione sovietica, la PPSH-41, ed una ragazza con un berretto in testa ed una vistosa medicazione sulla guancia destra; entrambi fissano l'obiettivo , un'aria di sfida nello sguardo quasi tranquillo. Dietro di loro un uomo con i baffi, in impermeabile e basco, una pistola in mano. Più inquietante, quest'ultimo, forse perché non è più giovane!
Questa foto, mostrata così come è stata scattata, oppure tagliata, è diventata un'icona dell'ottobre ungherese ed è servita tanto come omaggio alla giovinezza e alla passione degli insorti, quanto ad accusarli e ad assimilarli al crimine, alla teppaglia, usandoli per illustrare la prosa poliziesca. In un caso e nell'altro, la foto ha continuato a dire quello che vuole dire di quei momenti convulsi in cui Budapest e l'Ungheria si sono alzate in piedi.
Poi, qualcuno ha visto la foto, ed ha deciso, con una buona dose di follia, di mettersi sulle tracce dei personaggi che vi sono ritratti. Sei anni di lavoro tenace, prima quasi da dilettanti poi con una furia sempre più crescente. Sei anni di lavoro ostinato, a separare il vero dal falso, ad evitare vicoli ciechi e false piste, a tracciare ipotesi, a resistere all'eccitazione e allo scoraggiamento. Sei anni, cinque paesi e tre continenti, per individuare dietro ad ogni figura fermata su un negativo cosa è stato a muoverla, ad agire, a cercare di vincer. Ma anche scoprire cosa sono diventati. Sei anni di un'inchiesta minuziosa, in modo da poter restituire a questa fotografia il suo peso storico, collettivo e privato.
E così si viene a sapere che il giovane dal bel volto si chiama Gyuri, e che è morto in quei giorni di battaglia; la ragazza si chiama Yutka, uno dei suoi due fratelli, di 9 anni, è morto, il primo giorno dell'invasione sovietica: fucilato con un colpo per aver lanciato un sasso contro un carro armato. L'altro fratello combatte dall'altra parte. Arriverà avventurosamente in Australia, alla fine. La foto che li ha immortalati non è stata scattata da Jean-Pierre Pedrazzini, bensì da Russ Melcher, fotografo freelance americano.
L'ottobre ungherese, l'altro Ottobre. Il popolo degli insorti, proletari senza leader, senza programma. Volevano cacciare gli occupanti, volevano vivere meglio. Rivoluzione nazionale? Democratica? Sociale? Per dodici giorni, i rivoltosi poterono chiamare "fascisti" tutti gli stalinisti di tutto il mondo, tendendo la strada e inchiodando l'armata rossa, contro ogni previsione.
Furono quello che potevano essere, e lo furono pienamente. Come in quella fotografia.
Phil CASOAR, Eszter BALÁZS
Les héros de Budapest Paris, Les Arènes, 2006, 252 p