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Villa Metaphora di Andrea De Carlo: la post-recensione

Creato il 24 marzo 2013 da Postscriptum
 

villa metaphora

Dopo anni di sacrifici, peripezie e spese folli, nell’estate del 2012 il famosissimo architetto Gianluca Perusato può finalmente alzare il sipario sul suo progetto più ambizioso: riportare ai fasti del passato Villa Metaphora.
Edificata un paio di secoli prima dall’eccentrico barone Canistraterra, l’imponente e misteriosa residenza sorge nella parte più aspra e selvaggia dell’isola immaginaria di Tari, nel sud est del Mediterraneo, è raggiungibile solo via mare e viene da sempre considerata dai taresi come un insulto alla patrona dell’isola, l’immensa Muntagna Matri (in realtà un vulcano). Dopo la dipartita del suo proprietario la villa versò in stato di abbandono per parecchi anni finché non rientrò nelle mire di Perusato.
Il sagace architetto realizza sui ruderi della suddetta villa un accessoriatissimo ed eco-compatibile resort di lusso, un luogo in cui i facoltosi ospiti possono staccarsi dalle oppressioni del mondo esterno per sondare il loro rapporto con l’infinito.

 

Il gruppetto di clienti che l’architetto ospiterà per primi a Villa Metaphora rappresenta il meglio e il peggio che la società odierna possa offrire e, nonostante il tranquillo soggiorno si trasformi ben presto in un’avventura surreale, ognuno di essi mostra un approccio completamente differente alla vita. Chi abbia avuto la fortuna di leggere qualche altro romanzo di Andrea De Carlo non si stupirà della sua straordinaria capacità di cogliere ogni sfumatura del comportamento umano e trasformarla in convincenti successioni di periodi su un foglio di carta, ma in questo romanzo lo scrittore milanese dà prova di una magistrale tecnica narrativa sfruttando uno degli espedienti meno originali del mondo delle letterature (un gruppo di persone isolate dal resto del mondo che si confrontano, senza interferenze esterne, con se stesse, con gli altri e con i massimi sistemi. Vedi Decameron di Giovanni Boccaccio, nda ). Inoltre inventarsi un’isola con una sua lingua e una sua cultura è un azzardo non da poco, specie se la cultura che si va a scomodare è quella siciliana (o simile) che è parecchio complessa anche per lo scrittore più bravo, ma il fatto è che Tari potrebbe esistere tranquillamente e il tarese, lingua ufficiale dell’isola nata da una commistione di latino, spagnolo, francese e inglese, è parecchio verosimile anch’esso poiché segue le stesse regole dei vari dialetti siciliani e, in extremis, del maltese.

Non si tratta però solo di rappresentare il diverso rapporto con la vita di un gruppo di persone ma anche di un acceso scontro tra culture: quella tarese infarcita di superstizione (la Muntagna Matri e suo figlio il Drago) che mal sopporta il modo di fare dell’architetto milanese e i suoi luoghi comuni sugli isolani e quella di Perusato stesso, uomo di mondo e di successo che non comprende (nè cerca di farlo) le caratteristiche della terra che lo psita e ancora quella personale di ognuno dei clienti che cozzerà, salvo alcuni casi, con quella degli altri generando la tensione necessaria per delineare i caratteri di ognuno dei personaggi. Dice il tuttofare Carmine, tarese di nascita: tutta la forza dell’esistente è in circolo, il cielo tondo, tonda la terra, tonde le stelle, il sole tondo tambene…Epperò gli uomini sono lì tuttotempo a pretendere di tirare linee dritte, di tirarle lunghe e per quanto lunghe possa averle non gli suffice mai”.

Il romanzo ha un ritmo incalzante che non lascia spazio a tempi morti, praticamente non esistono momenti noiosi o di transizione e ogni singolo avvenimento è essenziale per la prosecuzione della storia. Gli stessi personaggi coinvolti nell’avventura sono essenziali indipendentemente dalla percezione che ne ha il lettore: è impossibile che uno di essi possa passare inosservato, sono tutti così perfettamente costruiti da rendere automatica un’immediata impressione e/o catalogazione, sia essa positiva oppure negativa.

Tra un capitolo e l’altro De Carlo trova anche il tempo di inventarsi anche delle splendide poesie e dei proverbi taresi. Vi lascio con una poesia in dialetto contenute in uno dei passi più belli del romanzo.

Frinisia du mari, vuci di li scogli,
ucchiu di dragu ‘nti li niuri dogli,
paura di trasiri a lu grandi internu,
di nun truvariu, di tuttu riscurdari
di ‘nti li formi luntani ripiumbari.
Chi gravi vuci havi lu vulcanu,
auscultai ‘nsunnachiatu di luntanu,
spersu, cunfusu,’ngramagghiatu,
lu celu di tristizza cummigghiatu,
tra sonnu e vigghia cridinnu di sunnari,
circanno pi stanchizza l’abbannunnu.
Chi suspittusa notti munta, mantu stranu,
vugghia di pirdirsi, ‘nni lu mari di focu,
vugghia d’addimurari in altro locu.
O luci custirnata di luna riuspicchiata,
luci pirduta dìacqua scanusciuta.
Luci d’ucchiu du dragu ‘nti lu scuru sonnu.
Luci d’ucchiu du dragu ‘nti lu scuru sonnu.

 


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