Passion lives here (La passione abita qui). Era il 2006. E sotto la spinta di queste tre parole, slogan dell’ evento sportivo, veniva inaugurato il Villaggio Olimpico di Torino, in vista, appunto, delle Olimpiadi invernali. Bottiglie di spumante stappate davanti ad energici sorrisi, fiumi di entusiasmo e gente che popolava le strade. Lo spirito sportivo delle Olimpiadi portava nell’aria la voglia di stare insieme ma, soprattutto, la voglia di condividere quell’evento proprio lì, in tutte quelle strutture create per l’occasione. Era il Febbraio di qualche inverno fa e sui giornali di tutto il mondo si parlava di Torino, inaugurata vera e propria città dello e per lo sport.
A distanza di sette anni la situazione è ben diversa. Lo spumante ha lasciato il posto a lattine di coca e di birra ai margini dei marciapiedi, gli slogan spariscono e compaiono murales, tag e contemporanee “opere d’arte” di writer improvvisati. Il suono delle voci, del via vai di scarpe (ginniche o meno), la convivialità e il fervore di una città in movimento, si arrende al silenzio assordante dell’abbandono.
Nel 2006 si parlava della Torino dello Sport. Il 2013 è la denuncia di una Torino occupata. Infatti, ad oggi, si parla di circa 400 rifugiati del Nord- Africa che, trovatisi senza dimora, hanno preso possesso abusivamente degli alloggi che un tempo erano destinati agli sportivi, ospiti della vecchia capitale. Nel Dicembre 2012, infatti, dopo svariate proroghe, è terminato il progetto “EMERGENZA NORD-AFRICA”, il quale prevedeva un piano di accoglienza con l’inserimento in programmi d’integrazione. Ciò ha comportato la chiusura degli alloggi destinati ai rifugiati con la conseguente perdita di quella “minima sicurezza” che fino a quel momento gli era stata garantita.
E così, con 500 euro in tasca e una prospettiva di ritorno in patria davanti agli occhi, ognuno di loro ha dovuto provvedere da solo al proprio presente, abbandonato a sé stesso da un paese che, in questo momento di esasperazione generale, non riesce a garantire la sopravvivenza “ai propri figli”, figuriamoci dare spazio ed attenzione a chi nasce fuori dai suoi confini. Ma tornare nel proprio paese, no, non vogliono. E allora ci si arrangia come si può.
Dura la denuncia degli attivisti del Centro Sociale Gabrio:
<< Quella dell’emergenza Nord-Africa è una tipica storia italiana fatta di promesse, inefficienze, organizzazione e business.>>
La loro rabbia è evidente e forse comprensibile. Quello che doveva essere un progetto volto all’inserimento e alla ricostruzione di una dignità lesa dalla primavera araba che ha prodotto una disperazione collettiva, si è trasformato in una storia d’interesse di privati che, garantendo una parvenza di vitto e alloggio, intascava la propria ricompensa per ogni rifugiato “sistemato”. Una sistemazione che non ha però garantito le basi di quel progetto come, per esempio, l’insegnamento della lingua italiana. Ma dove non arrivano le istituzioni, arriva la grandezza d’animo di chi non si tira indietro. C’è un cuore, quello degli italiani, che ha poco a che vedere con colori politici, che sono lontani da dibattiti elettorali dove si elemosinano voti e ci si scanna per i consensi. Ci sono braccia che trasportano materassi, bocche che insegnano la lingua del bel paese, mani tese per rialzare, corpi materiali per anime fantasma. Ma tutto questo, purtroppo, non basta. Bisognerebbe alzare le voci, accendere i riflettori, scuotere gli animi ai vertici.
Sette anni. Solo sette anni ci sono voluti per trasformare quello slogan, quell’espressione di speranza e sicurezza, in un’amara e triste consapevolezza. Dove prima abitava la passione, ha preso dimora il degrado, il triste ritornello di un paese stanco che non riesce a garantire i diritti civili. Ecco cosa si legge sui muri dell’ex villaggio olimpico di Torino: “Degrado lives here”. Ahimè, lo si legge anche negli occhi della gente.
Roberta Magliocca