E’ passato un anno dal disastro in Giappone. L’avete letto un po’ ovunque nelle ultime 24-48 ore, per cui presumo non abbiate certo bisogno che vi venga a raccontare io com’e’ andata.
Eppero’ un anno fa io in Giappone ci abitavo. Avevo gia’ deciso di licenziarmi, e a dire il vero ero gia’ in parola con la mia attuale azienda (la proposta di assunzione mi sarebbe arrivata il 16 marzo, a cinque giorni dal terremoto, ma io avevo gia’ accettato sin da febbraio). Esattamente un anno fa, il 12 marzo del 2011 ero sul piede di partenza, con un nuovo lavoro e una nuova destinazione gia’ definiti, e con alle spalle un terremoto di proporzioni apocalittiche, una centrale nucleare in procinto di esplodere e una citta’ bloccata dal disastro. Eppure non me ne sono andato, sono rimasto li’ fino al giorno della partenza per l’Australia, tipo soldato giapponese imboscato a Saipan.
Non me ne sono andato a causa dal disastro, come invece hanno fatto alcuni. Leggo in questi giorni un concerto di parole struggenti e lacrime di coccodrillo su facebook, twitter: forse si sono gia’ dimenticati come sono andate le cose l’anno scorso, quando a macerie ancora fumanti erano gia’ in treno o in aereo per mettersi in salvo dalle radiazioni. Comodo piangere il “povero Giappone” col culo al sicuro.
Io no. Io sono rimasto durante tutta l’emergenza. Mi sono fatto le code per l’acqua al supermercato, quando non potevi usare quella di rubinetto neanche per farti una pasta per paura del Cesio. Ho vissuto in prima persona i disagi in treno, le crepe sui muri in ufficio, gli aftershock e le evacquazioni un giorno si e uno anche, le finestre rotte, la scarsita’ di energia elettrica, la vita che pian piano ricominciava. Soprattutto ho vissuto le settimane in cui la notte avvolgeva la Metropoli Tentacolare come in un film dell’orrore, quando non c’era elettricita’ per combattere il buio che scendeva sui grattacieli. Quando ad Hachiko intravedevi sagome in ombra ad aspettarsi, e non c’erano piu’ i lampioni, piu’ i maxischermi, piu’ il Tokyu gigante sopra di te. Non c’era piu’ il 109 in lontananza, piu’ le insegne dei negozi, e le uniche luci che vedevi erano i fari delle macchine e dei taxi che passavano.
Ecco. A un anno di distanza io vorrei andare un po’ contro corrente e uscire dal coro di quelli che ricordano il “povero Giappone”. Vorrei ricordare a tutti che il Giappone e i giapponesi si sono tirati su da soli e non hanno certo avuto bisogno delle nostre parole di circostanza per farlo. Quello di cui avevano bisogno da noi stranieri che eravamo li’, era che facessimo la nostra piccola parte alzandoci la mattina e andando al lavoro. Era che facessimo il nostro dovere senza sbroccare, senza lamentarci, senza farci prendere dal panico. Era che remassimo tutti nella stessa direzione.
Questo per dire che a distanza di un anno credo di non essere ancora riuscito a perdonare del tutto quelli che nel momento del bisogno hanno solo pensato solo a se stessi. Un anno fa ho scritto questo, forse un po’ ingenuamente. Mi chiedevo come mi chiedo adesso, come sia stato possibile per alcuni vivere anni e anni in un posto e non averlo in fondo mai cercato di capire, non averlo assimilato nemmeno un pochino.
Alcuni mi sono sembrati dei turisti a lungo termine, dei villeggianti in pianta stabile. E io, una meteora che a Tokyo in fondo c’ha vissuto per nemmeno due anni, dal mio piccolo li guardavo andarsene come topi che abbandonano la nave che affonda. Ma forse per me e’ stato piu’ naturale, chi lo sa. Io che Tokyo l’avevo scelta non per calcoli d’interesse o d’opportunita’ ma in fondo, beh… per amore della citta’ e dei suoi abitanti.
Me ne sono andato pure io alla fine, certo. Alcuni potrebbero obiettarmi che ora sto qui a pigiar tasti dall’Australia, bene al sicuro in terra antisismica e nuclear-free. Ma questa e’ una scelta che ho dovuto fare (e a malincuore) per ben altri motivi legati al mio progetto di vita; tutti i miei amici e conoscenti sanno bene che se il Giappone avesse potuto offrirmi le possibilita’ di carriera cui aspiro ora sarei ancora li’. Ne e’ prova il fatto che me ne sono andato solo a luglio, chiedendo all’azienda nuova di aspettarmi per ben quattro mesi. (se avessi potuto me ne sarei andato anche piu’ in la’, tipo novembre).
Pero’ tornando a quei giorni posso confermare senza paura di essere smentito che non ho mai vacillato, non ho mai pensato una sola volta di abbandonare quel posto nel momento del bisogno, perche’ per me sarebbe stato come tradire quel popolo, come ammettere di aver usato quella citta’ senza averne capito lo spirito. Mentre io, meteora che ha avuto la gaijin card per nemmeno due anni, quel posto l’ho vissuto e l’ho amato sul serio, dal primo all’ultimo giorno.
Queste sono le parole che mi sento di dire a un anno dalla tragedia. Tutto qua.