Vincenzo Consolo: l’Amaro Sorriso dei Vinti di Sicilia

Creato il 30 marzo 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Postato il marzo 30, 2012 | LETTERATURA | Autore: Michela Tetto

Non c’è epoca che non abbia mietuto le sue vittime, non c’è evento storico che non sia segnato da perdite, morali materiali e soprattutto umane, rimaste nascoste sotto il peso dell’oblio. È forse banale dire che la storia non è fatta che per i Napoleone e i Garibaldi e che tutto ciò che l’uomo considera arbitrariamente superfluo da ricordare rimane sullo sfondo, più o meno ignoto a chiunque decida di attingere a questa immensa ricchezza dataci dai posteri, di iniziarsi alla conoscenza di un passato che poi non è così lontano da noi, come possiamo credere. C’è, di certo, chi ha cercato di dare spazio a queste vittime della selezione naturale della storia. E la Sicilia, la terra dei vinti verghiani, ha dato a tal proposito i suoi frutti. Siciliano è Vincenzo Consolo che, nel suo capolavoro, Il sorriso dell’ignoto marinaio, ha dato spazio a questi “ignoti”, narrandoci delle vicende che coinvolsero i siciliani in seguito allo sbarco dei Mille e, dunque, le rivolte dei contadini della provincia di Messina, terra natale dello scrittore. In esso confluiscono sia vicende private dell’autore che pubbliche. Al primo ordine appartengono la conoscenza dei paesi dei Nebrodi, di cui ci vengono riferite le rivolte popolari, tramandate più oralmente che dalla storiografia ufficiale; di Lipari e delle sue cave di pomice; di Cefalù e della biblioteca e del museo fondati dal barone Mandralisca, e la rivelazione, nel museo, del Ritratto d’ignoto marinaio di Antonello da Messina. Fra gli eventi pubblici, ricordiamo il dibattito sul fallimento del risorgimento sociale accusato da Il Gattopardo di Lampedusa. Il sorriso dell’ignoto marinaio può essere dunque collocato tra i grandi romanzi storici scaturiti da un senso di iniquità nei confronti di un popolo e di una terra violata e lacerata dalle ingiustizie, ma ancora viva, fertile, crocevia tra un Oriente di miti e leggende e un Occidente di storia e disordini. È come se il romanzo di tema risorgimentale fosse una sorta di passo obbligatorio per tutti i grandi scrittori siciliani, ma anche un modo per dare voce a chi non possiede il potere della scrittura. Sul modello manzoniano, la riproposizione di documenti dell’epoca, spesso variamente manipolati dall’autore, fa da contrappunto alle vicende del protagonista, come se fungesse da testimonianza del fatto che quanto narrato sia realmente accaduto.

Da qui l’attenzione di Consolo nell’indicare con precisione le date in cui si svolgono i vari eventi che porteranno all’annessione della Sicilia al Regno d’Italia. Veniamo così catapultati nel 1856, quando scoppiano le prime di una lunga serie di rivolte a Mezzojuso, in provincia di Palermo, e a Cefalù, rivolte soppresse, due giorni dopo, dalle forze borboniche; e ancora, nel 1860, la rivolta di Alcàra li Fusi che aveva come slogan non “Viva l’Italia,” come alcuni sostenevano fosse più giusto, bensì “Giustizia”. Il vero obiettivo del popolo siciliano, infatti, non era tanto l’unificazione di uno stato che a malapena qualcuno di loro era riuscito a vedere al di là delle acque di Scilla e Cariddi, bensì in nome di diritti naturali, primo fra tutti quello alla libertà che essi, pur nella loro estrema povertà ed ignoranza, riconoscevano di avere E quel sorriso sembra guardare dall’alto il soccombere delle forze siciliane a quelle borboniche. Ed è, seppur paradossalmente, Mandralisca, ovvero un aristocratico, a farsi carico delle rivendicazioni del popolo, consapevole del fatto che ciò che loro, i dotti, chiamano libertà, giustizia, non ha per il popolo lo stesso significato. L’aristocratico dedito ai suoi studi eruditi, presentatoci nelle prime pagine del libro, subisce dunque una metamorfosi e diventa un intellettuale che mette la sua erudizione al servizio di chi ne è privo. Il vero protagonista, però, non è lui; per l’appunto, come ci chiarisce lo stesso Consolo, «Il barone di Mandralisca era il personaggio storico e romanzato che mi serviva per dimostrare cos’è la responsabilità dell’intellettuale in determinati momenti storici».

Sin dalle prime pagine si ha l’impressione di stare venendo a contatto con un testo enigmatico, specie per l’attenzione mostrata da Consolo nel descrivere, in maniera quasi maniacale, le singole realtà e situazioni che coinvolgono i contadini, i suggestivi paesaggi siculi, con particolare attenzione alla flora caratteristica dell’isola e alle sue tradizioni. Tali descrizioni sembrano rendere l’opera, se ci si soffermasse ad una lettura superficiale, alquanto prolissa e direi quasi baroccheggiante. La punteggiatura non è sempre regolare, il linguaggio appare spesso di difficile comprensione perché ricco di termini desueti oltre che di espressioni gergali, in bilico tra prosa e poesia. Particolarmente complesso anche quell’ordine delle somiglianze, punto focale dell’intera opera, tanto che si è più tendenti a chiedersi a chi somigli il barone Mandralisca che chi sia realmente; viene in tal modo reso problematico il tema dell’identità, in consonanza con un aspetto ricorrente dell’opera, ovvero la difficoltà che s’incontra nel cercare di definire il volto di questi uomini senza memoria, che ignoravano cosa stesse facendo «quel tizio di nome Garibardo» e la cui esistenza è assimilabile alla forma di una chiocciola: essi nascono nella povertà e nell’ingiustizia, lottano per cambiare la realtà, soffrono, ma finiscono per soccombere, trovandosi così nuovamente al punto di partenza.



Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :