Da qui l’attenzione di Consolo nell’indicare con precisione le date in cui si svolgono i vari eventi che porteranno all’annessione della Sicilia al Regno d’Italia. Veniamo così catapultati nel 1856, quando scoppiano le prime di una lunga serie di rivolte a Mezzojuso, in provincia di Palermo, e a Cefalù, rivolte soppresse, due giorni dopo, dalle forze borboniche; e ancora, nel 1860, la rivolta di Alcàra li Fusi che aveva come slogan non “Viva l’Italia,” come alcuni sostenevano fosse più giusto, bensì “Giustizia”. Il vero obiettivo del popolo siciliano, infatti, non era tanto l’unificazione di uno stato che a malapena qualcuno di loro era riuscito a vedere al di là delle acque di Scilla e Cariddi, bensì in nome di diritti naturali, primo fra tutti quello alla libertà che essi, pur nella loro estrema povertà ed ignoranza, riconoscevano di avere E quel sorriso sembra guardare dall’alto il soccombere delle forze siciliane a quelle borboniche. Ed è, seppur paradossalmente, Mandralisca, ovvero un aristocratico, a farsi carico delle rivendicazioni del popolo, consapevole del fatto che ciò che loro, i dotti, chiamano libertà, giustizia, non ha per il popolo lo stesso significato. L’aristocratico dedito ai suoi studi eruditi, presentatoci nelle prime pagine del libro, subisce dunque una metamorfosi e diventa un intellettuale che mette la sua erudizione al servizio di chi ne è privo. Il vero protagonista, però, non è lui; per l’appunto, come ci chiarisce lo stesso Consolo, «Il barone di Mandralisca era il personaggio storico e romanzato che mi serviva per dimostrare cos’è la responsabilità dell’intellettuale in determinati momenti storici».
Sin dalle prime pagine si ha l’impressione di stare venendo a contatto con un testo enigmatico, specie per l’attenzione mostrata da Consolo nel descrivere, in maniera quasi maniacale, le singole realtà e situazioni che coinvolgono i contadini, i suggestivi paesaggi siculi, con particolare attenzione alla flora caratteristica dell’isola e alle sue tradizioni. Tali descrizioni sembrano rendere l’opera, se ci si soffermasse ad una lettura superficiale, alquanto prolissa e direi quasi baroccheggiante. La punteggiatura non è sempre regolare, il linguaggio appare spesso di difficile comprensione perché ricco di termini desueti oltre che di espressioni gergali, in bilico tra prosa e poesia. Particolarmente complesso anche quell’ordine delle somiglianze, punto focale dell’intera opera, tanto che si è più tendenti a chiedersi a chi somigli il barone Mandralisca che chi sia realmente; viene in tal modo reso problematico il tema dell’identità, in consonanza con un aspetto ricorrente dell’opera, ovvero la difficoltà che s’incontra nel cercare di definire il volto di questi uomini senza memoria, che ignoravano cosa stesse facendo «quel tizio di nome Garibardo» e la cui esistenza è assimilabile alla forma di una chiocciola: essi nascono nella povertà e nell’ingiustizia, lottano per cambiare la realtà, soffrono, ma finiscono per soccombere, trovandosi così nuovamente al punto di partenza.