Mi sono imbattuta, così per caso, in uno scultore forse poco conosciuto, che mi ha colpito per l’estremo realismo trasposto nella fisiognomica delle sue statue. Si tratta di Vincenzo Gemito, un artista che si è dedicato anche al disegno e all’arte orafa; nato a Napoli nel luglio del 1852 ed ivi morto nel marzo del 1929.
Considerato genio e folle dai contemporanei, Gemito è tenuto in grande considerazione dalle gallerie internazionali e dai collezionisti. L’originalità dei suoi manufatti deriva dalla sua formazione di autodidatta, in grado di agire al di là delle mode del momento, concentrandosi su uno schietto realismo. Gemito è stato artista istintivo, eccezionalmente dotato, artefice di un tipo di scultura “palpitante”, resa vitale dal vibrare della luce. A diciannove anni il suo prodigioso talento si rivela con “il Bruto”, una scultura che di classico ha solo il titolo, e che raffigura uno “scugnizzo” napoletano dall’espressione cupa ed imbronciata.
I suoi primi modelli, nonché soggetti prediletti, sono sempre stati i ragazzini della strada, il mondo della sua stessa adolescenza, corpi nei quali si può cogliere una straordinaria freschezza fisica, la tensione dei gesti scattanti, l’espressione talvolta vivace, altre malinconica.
Con le sue opere si è guadagnato fama anche all’estero. “Il pescatorello”, per esempio, esposto al Salon parigino del 1877, ha suscitato allo stesso tempo biasimo ed ammirazione per il realismo senza compromessi, per la resa del ragazzino accovacciato sullo scoglio che cerca di liberare il pesce dall’amo prima di riporlo nella rete che tiene arrotolata intorno alla pancia. Il guizzo del pesce si trasmette al movimento del ragazzo che con i piedi cerca di ancorarsi allo scoglio in uno sforzo di equilibrio. Il modellato liscio e tornito del nudo sembra richiamare la tradizione ellenistica, mentre la resa irregolare e scabra della capigliatura arruffata o delle maglie della rete sono di stampo realista.
Nei ritratti, quello che colpisce è soprattutto il senso dell’intensità della vita, espressa dalla gioventù fresca del pittore Francesco Paolo Michetti; dalla potenza vigorosa che si evince in un busto in bronzo di Giuseppe Verdi, esposto a Firenze alla Galleria d’Arte moderna; o persino dalla malinconica dolcezza di Matilde Duhamel.
La vivacità quasi “pittorica” di queste opere cederà più tardi a un modello liscio e curato, probabilmente sviluppato sugli esempi della statuaria ellenistica e manierista, maturato durante un soggiorno di tre anni a Parigi, tra il 1877 e il 1880, alla resa del quale Gemito si dedicherà, negli anni più cupi delle crisi mentali, con ossessivo perfezionismo.
È molto probabile che attraverso Meissonier, pittore francese del periodo napoleonico e maestro allora in voga, Gemito avesse conosciuto a Parigi gli scultori di stile raffinatamente neorinascimentale che venivano chiamati, proprio per questa loro connotazione “neofiorentini”, fra i quali Falguière e Dubois.
Alla fine del periodo parigino, in concomitanza con importanti commissioni pubbliche, Gemito viene colpito da profondo scoramento e ricoverato in una clinica per malattie mentali, da dove fugge per poi segregarsi nella sua casa per oltre un ventennio. Superata la malattia, nelle opere tarde l’artista continua nella ricerca di perfezione, quasi un sogno di bellezza ideale, eseguendo opere preziose e raffinate, come la serie dedicata alla figura di Alessandro Magno.
Figlio di ignoti, di umili origini, insofferente di ogni convenzionalismo accademico, questo il ritratto di Vincenzo Gemito. Attraverso figure realizzate in terracotta, cere e alcuni bronzi, è riuscito nell’intento di cogliere l’attimo. Un gesto, un’espressione del volto, un atteggiamento, immortalati per l’eternità, eppure così evocativi da sembrare soggetti reali e sempre “vivi”.
Written by Cristina Biolcati