Ma come sarebbe che sembra che ci vergognamo quasi a dire - e prima ancora a pensare - che certe battaglie non vadano solo combattute, ma addirittura
vinte?
Cosa ci è entrato nelle vene - una pacata rassegnazione ispirata a De Coubertin ("L'importante non è vincere ma partecipare. La cosa essenziale non è la vittoria ma la certezza di essersi battuti bene") o forse il disagio per un termine che è stato colonizzato nel nostro immaginario da
canzoni e proclami di uno specifico schieramento politico col quale non condividiamo né ideali né prassi?
"Vincere" [vìn-ce-re], verbo transitivo, ha i significati di
- 1 Superare, battere qualcuno in uno scontro armato, in un incontro sportivo o altro
- 2 Portare a termine con successo uno scontro, una competizione, una prova
- 3 Aggiudicarsi, conseguire qualcosa
- 4 fig. Indurre qualcuno a cedere, convincerlo
- 5 fig. Superare qualcosa di avverso o negativo
- 6 fig. Controllare, dominare qualcosa
e fino a prova contraria è una voce della lingua italiana
che non mi risulta essere di proprietà esclusiva di qualcuno, e il
copyright dell'arroganza e del "Dio è dalla nostra parte" non sono
marchi che io sia disponibile a riconoscere. Quindi, da anarchica, non
dò un bel niente a nessuno, anzi: se voglio una cosa e ritengo che sia
mia comincio col riprendermela.
Quindi basta col "partecipare", "combattere", "convivere con ciò che non ci sta bene": cominciamo a pensare che vogliamo
vincere, e magari con quest'attitudine ce la faremo un po' di più, eh? ;-)