[già pubblicato su Lankelot]
“Esistono molti modi di scrivere diari come questo. Comincio a diffidare delle descrizioni, e anche di quegli adattamenti spiritosi che trasformano l’avventura di un giorno in narrazione; mi piacerebbe scrivere non soltanto con l’occhio, ma con la mente; e scoprire la realtà delle cose al di là delle apparenze”.
Quanto di meglio c’è nei Diari di viaggio della “giovane esordiente” Virginia Woolf è una profonda meditazione e interrogazione sulla scrittura. Sulla sua scrittura. Continua il passo sopraccitato: «In mancanza di questo – e non avrò mai il tempo, né la costanza per pensare molto, lo so – cercherò di essere una serva onesta, e di raccogliere il materiale che più tardi potrà servire a una mano più esperta – oppure di suggerire allo sguardo immagini infinite», (p. 67). Eccovi in breve spiegato il senso di questa pregevole edizione Mattioli 1885 degli estratti dai “Diari di Viaggio in Italia, Grecia e Turchia” che Virginia (all’epoca ancora Virginia Stephen) Woolf redasse dal 1906 al 1909, curati attentamente da Francesca Cosi e Alessandra Repossi. Meditazioni sulla possibilità della parola di cogliere la realtà e di essere scritta “con la mente”, affiancate a descrizioni di luoghi e persone che valgono più come appunti da rielaborare “da una mano più esperta” in una sede di scrittura più consonna e più matura (vedi ad esempio il primo romanzo La crociera, che usicrà nel ’13).
Nel 1906 la ventiquattrenne Virginia, che in patria iniziava appena a farsi conoscere per le sue recensioni, attraversa di corsa l’Italia in treno e si imbarca per Patrasso. Lo studio del greco antico, a quest’altezza della sua vita, evidentemente la riempiva di curiosità ed entusiasmo per la Grecia. L’Italia, per ora, è trascurata così: «Il cuore della calura si trovava in Grecia; mentre ci avvicinavamo, l’intero territorio di questo ponticello tra paese e paese si è accartocciato e dissolto», (p.13). La Grecia allora. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la letteratura di viaggio sa che il viaggiatore intellettuale, culturalmene preparato ed edotto sul paese di destinazione, va spesso incontro alla disillusione. Dice bene Virginia «l’immaginazione aveva già fatto di meglio», (p. 53). Difficile dunque conciliare i sogni fatti sui banchi di scuola e la realtà quotidiana della Grecia di primo Novecento. «Molto spesso in Grecia hai questa sensazione – che la processione sia passata molto tempo fa e che tu sia arrivato troppo tardi e poco importa ciò che pensi o senti», (p. 21). Virginia dunque mescola questa delusione intellettuale col piacere estetico vivido provato davanti alle statue classiche, fissando ogni tanto annotazioni folcloriche sul presente greco. Contemporaneamente la scrittrice mette alla prova la sua penna, affrontando quella che potremmo definire l’ineffabilità del paesaggio. Che sia il Partenone, il volto di un Ermes di Prassitele o un tramonto, poco cambia. Una Virginia spesso laconica sui dettagli del viaggio, si esercita a rendere in parola ciò che la visione le ispira, laddove un pittore farebbe un bozzetto. Più che consegnarci dei risultati letterariamente ispirati, questi Diari raccolgono dei tentativi, degli esercizi quasi, propri della penna giovane di una delle scrittirci più famose del Novecento.
La visita a Costantinopoli dura appena una settimana. Virginia non ha il tempo di capire molto della città e, forse bloccata da un limite prima linguistico poi culturale, rinuncia ad interpretare. Si nutre più che altro del mistero fuggevole che quella città ha potuto lasciargli: «Adesso per esempio c’è l’enigma di Santa Sofia; perché è la chiesa più criptica d’Europa? Perché diventa sempre più bella e misteriosa via via che la si conosce – o che se ne conosce l’involucro? Bisogna iniziare dal principio e confessare che l’enigma sono i turchi stessi», (p.63). Non ha né tempo né voglia, forse, di approfondire l’Oriente a cui Costantinopoli apre. A causa anche della malattia della sorella, Virginia torna in Inghilterra per ripartire due anni dopo alla volta dell’Italia, stavolta dedicando al bel paese ben più tempo e attenzione. Ripreso in mano il taccuino da viaggio la scrittrice va a Perugia e solo l’anno successivo a Firenze. Ecco, dobbiamo forse concentrare l’attenzione su quel taccuino gettato di fretta nella borsetta, magari spiegazzato, magari con qualche chicco di zucchero finitoci dentro, per poter poi immaginare la giovane Woolf che, fra visite ai musei, thè nei giardini delle ville signorili ed amabili conversazioni sul Perugino, descrive senza troppa regolarità le persone incontrate e i paesaggi ammirati. Più che il diario di un viaggiatore, questo libro sembra essere il brogliaccio di una scrittrice in viaggio, che ha bisogno di tanto in tanto di tenere allenata la penna, di esercitarla anche quando sa che «le parole sono particolarmente inadeguate», ha bisogno di indagare le brecce d’ingresso al cuore della realtà, scoprendone così la recalcitranza e l’ineffabilità, e con esse confrontarsi, spinta da un bisogno intimo inalienabile e più forte d’ogni disillusione: la scrittura. «È con grande soggezione che scrivo, ripensando alle stroncature rivolte alla scrittura vuota e donnesca. Avvalorando tali critiche, Browning, ha ingannato intere generazioni. Per quel che mi riguarda – io scrivo. L’istinto zampilla come linfa in un albero», (p. 85), così scriveva il 25 aprile del 1909, appena arrivata a Firenze.
Virginia Woolf, Diari di Viaggio. In Italia, Grecia e Turchia (Mattioli 1885, 2011). Cura, traduzione e postfazione di Alessandra Repossi e Francesca Cosi. Pagine 111, euro 17,90