La prima volta che mi è capitato di sentire suonare Marco Bernacchia è stata una sera di qualche anno fa, davanti a un baretto del mio paese, uno di quei posti dove la gente va per farsi vedere e per “l’ape”. Marco se ne stava lì, totalmente fuori contesto, a smanettare con i suoi aggeggi, con la sua bella maschera di cartone e una chitarra mutilata fra le mani, in mezzo a “uommene scicche e femmene pittate” di meroliana memoria, che naturalmente lo degnavano di poca o nulla considerazione: complice anche la situazione bizzarra, il suo noise-blues è stato per me una vera e propria epifania. Il marchigiano negli anni a venire ha portato avanti brillantemente la ragione sociale Above The Tree sia da solo, sia in sinergia con altri musicisti, come E Side, Drum Ensemble Du Beat o con Johnny Mox nel recente progetto denominato “Stregoni” e incentrato sul tema dell’immigrazione.
Con lo pseudonimo Virtual Forest Bernacchia esprime invece il lato più esoterico e rituale della sua musica: questo Ritual Machine Music costituisce con le sue due lunghe tracce, una per lato, il proseguimento del discorso iniziato con il nastro d’esordio, pubblicato sempre dalla bolognese Yerevan Tapes, una delle cose più belle ascoltate nel 2015. Si tratta ancora di uno psych-drone ad alto tasso di umidità, concepito per indurre stati alterati di coscienza nell’ascoltatore attraverso una fitta stratificazione di campioni e field recording. Rispetto alla cassetta dello scorso anno questo disco dà l’idea di un lavoro più ragionato ma meno incisivo; l’utilizzo di materiali folklorici, che a tratti rimanda all’ultimo degli Heroin In Tahiti, si rivela un po’ sovrabbondante, come le percussioni che monopolizzano il lato A del disco. La parte più notevole si rivela la facciata B, un caleidoscopico pastiche sonoro in cui si dipanano fiumi carsici di fiati in loop, batterie space-bossa e un finale a base di cori afro opportunamente conditi.
Marco Bernacchia si dimostra ancora una volta musicista animato da una forte propensione alla ricerca sonora e, al di là di alcuni etnicismi di troppo, questo disco è testimone di un’ulteriore crescita artistica: una volta tanto possiamo dire che fa più rumore una foresta che cresce di un albero che cade.
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