"Il protagonista della vicenda, noto conduttore televisivo, manager e produttore, è una sorta di prototipo in negativo: un uomo privato della sua umanità, che sembra vivere in funzione del potere e dell'autocelebrazione. Un personaggio tratteggiato con spietatezza dall'autore, nel quale il lettore non faticherà a riconoscere persone e volti di questa Italia del nuovo millennio.Una società ossessionata dall'immagine, dalla vacua illusorietà della dimensione televisiva, dove niente è davvero reale e l'unico obiettivo sembra essere la ricerca incessante e spasmodica del successo transitorio offerto da un passaggio televisivo in prime time. Qui, a ben vedere, siamo già oltre l'abusato paradigma del quarto d'ora di celebrità teorizzato da Andy Wharol nei lontani anni Sessanta. L'esistenza di Ribaldi è una non-esistenza, sembra voler suggerire - in maniera neanche troppo velata - l'autore. E infatti Max Ribaldi è un uomo privo di affetti reali; eppure tale condizione pare non pesargli affatto, perso com'è nel suo pericoloso sogno estetizzante." (Dalla prefazione di Luigi Milani)
Recensione
La formula del romanzo breve (o del racconto lungo che dir si voglia) è una delle più difficili da gestire: occorre saper dosare bene i tempi, le pause, eventualmente comprendere quando i contenuti sarebbero più adatti a un racconto breve -per non ottenere l'effetto di poco burro spalmato su troppo pane-, o, viceversa, a un romanzo di più ampio respiro.
Per Virus la formula del racconto lungo ben si adatta, eppure l'inesperienza di Vigliani ne fa un'ottima idea mal sviluppata. La storia è di una circolarità che alla lunga diventa ripetitiva: Max, il protagonista, è prigioniero in una stanza -situazione letterariamente pericolosa se non si sa mantenere alta la tensione- da cui può assistere alla propria vita grazie a un televisore con funzione di finestra sul passato e sul presente; dopo aver messo in scena le vite di tanti, Max, produttore televisivo miliardario, è diventato uno di loro ed è obbligato ad affrontare l'evidente vacuità della sua vita fatta di apparenze.
Se si escludono alcuni capitoli dedicati a ciò che il protagonista vede sullo schermo davanti a cui è costretto, tutti gli altri sono costituiti quasi esclusivamente da dialoghi (per lo più insulti reciproci tra Max e la sua psicopatica rapitrice, Vanira) e scarne descrizioni: l'azione è pressoché assente. Conseguentemente, a causa anche della forma scelta (il romanzo breve, per l'appunto), i personaggi risultano appena abbozzati, e Vanira rimane un'inquietante ombra fino al finale del racconto, tirato via precocemente.
Il messaggio veicolato è manifesto, e senza dubbio spunto di importanti riflessioni sociopolitiche: Max Ribaldi, infatti, rappresenta l'incarnazione dello strapotere della televisione; dotato di immenso patrimonio e potere, che gli consentono il dominio sulla realtà quotidiana, Max è anche schiavo di se stesso e di ciò che possiede, subordinato a una vita di lusso, donne, e alta mondanità. Gli si oppone Vanira, che rappresenta la rivalsa delle masse anonime finalmente risvegliatesi dalla lobotomizzazione televisiva: bella, misteriosa e piena di rancore, Vanira mette in atto un piano per prendersi una rivincita contro tutto ciò di cui Max è incarnazione, fino a mettere a nudo la sua anima.
Quale dunque è questo virus del titolo se non la televisione, pericoloso strumento di plagio presente in ogni abitazione? Il messaggio -dicevo- è manifesto, purtroppo non è supportato da una sufficiente esperienza dell'autore nel campo della narrativa: se lo stile scarno può essere opinatamente apprezzato e considerato atto allo scopo, lo stesso purtroppo non si può dire della punteggiatura scorretta e soprattutto della sintassi e del lessico che tendono continuamente al registro parlato, evidentemente non corretti da un editing adeguato:
"Diciamo non esattamente quello che ti aspetteresti da un gruppo di persone che segue un personaggio dello spettacolo [...]"
"C'è una cosa che mi sfugge" dico. "Perché?"
"La cosa è un po' lunga da spiegare e non è possibile farlo con le parole, per questo ti ho messo davanti a uno schermo".
"Quindi immagino che l'unica cosa da fare sia continuare a guardare".
"Diciamo di sì, ma non penso che tu sia ormai dello stesso avviso".
L'intercalare " diciamo ", che come da esempio ricorre per ben due volte in poche righe (i dialoghi del romanzo ne sono infarciti) potrebbe essere accettato un paio di volte in virtù di una pretesa mimesi del parlato, ma oltre l'effetto è desolante: i dialoghi appaiono poco spontanei ed eccessivamente costruiti.
Non ho dubbi, considerata la recensione di Daniele a Sangue e fango, che l'autore sia migliorato nell'anno che separa il secondo romanzo dalla sua opera d'esordio; purtroppo quest'ultima non risulta delle più soddisfacenti.
Giudizio:
+2stelle+