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Visitare il Nepal: intervista a Giada

Creato il 11 giugno 2015 da Giovy

Visitare il Nepal

Una vallata nepalese - © 2015 Giada


Nella vita di molti ci sono quei viaggi impressi ancora sulla pellicola fotografica, quei viaggi che, malgrado siano passati anni su anni, sono ancora lì pronti ad essere raccontati. Oggi, per la rubrica Terre Estreme, intervistiamo Giada che ci racconta il suo Nepal, vissuto nel 1999. L'intervista era pronta da un po' ma la tragedia del terremoto da quelle parti ci ha fatto pensare che posticipare la pubblicazione sarebbe stato giusto.
Il Nepal è sicuramente, a modo suo, una terra estrema: le altezze dell'Himalaya sono già estreme e mettono alla prova un po' tutti.
Ecco quindi il racconto di Giada e del suo viaggio in Nepal.
Giovy: Come mai hai scelto il Nepal?

Giada: Più che una mia scelta è stata una proposta lanciata da un amico di allora: “E se andassimo in Nepal?”. Considerata la passione che avevo per la montagna e i fine settimana passati fra cime e il nulla, mi è sembrata una normale evoluzione… anche se ammetto di averla presa un pochino alla leggera ma per fortuna, altrimenti non sarei mai partita. Siamo stati via un mese, di cui una settimana a Kathmandu e tre in un trekking nella valle del Khumbu, passando prima per Gokyo (5'357 msm), per poi ridiscendere e avventurarsi sul Kala Patthar (5'643 msm), una piccola cima che si trova proprio ai piedi del Pumori (7'161 msm), sopra il campo base dell’Everest e in mezzo a una distesa di ghiaccio che ancora oggi ricordo con estrema intensità (già solo a scriverne ho il cuore in subbuglio… mamma mia, quante emozioni…).
G: Cosa pensavi di trovare e cosa invece hai trovato?

G: Pensavo di trovare una passeggiata più impegnativa di altre, ed invece mi son ritrovata a percorrere un viaggio oserei dire mistico. Non è un'esagerazione, ve lo assicuro, e non è perché si cammina accompagnati dall’ombra di una miriade di bandierine tibetane al suono dell’Om Mani Padme Hum. Considerate che si cammina in media dieci ore al giorno, attraversando vallate in cui la natura è presente con la sua forza e imponenza fatta di fiumi, terra, cielo, sassi, neve, vuoto, tutto e cime da 8000, e vi assicuro che la prima volta che ne vedete una darete un significato diverso alla parola maestosità. Ecco, in queste condizioni reputo sia inevitabile scontrarsi con se stessi e incontrarsi con l’infinito. Non parlo di cose tipo illuminazione o chiamata, ma proprio una condizione di espansione dell’anima, che forse, per me che non sono proprio credente, di null’altro si tratta che di semplice fede. Mi ricordo ancora le ore passate a camminare in silenzio, con il vuoto nella mente e una sorta di pieno nel cuore, assaporando ogni istante, riempiendomi gli occhi di meraviglia, percependo il cambiamento di calore sulla pelle quando si passava dall’ombra di una pianta al sole (considerate che l’aria è molto rarefatta), chiacchierando con chiunque in lingue diverse ma comprendendosi (come accade ai bambini..), sciogliendo le tensioni per abbandonandole nel sudore. E l’aria… il profumo dell’aria è inebriante, l’acqua è di un freddo che ti fa urlare di dolore quando ti lavi, e il cielo è mille volte ciò a cui siamo abituati: vedi sciami di stelle cadenti ogni notte, basta aspettare un po’... sempre la sera si riesca a tenere gli occhi ancora aperti.
Poi, completamente rimbambita dalla natura, sono approdata a Kathmandu ed ecco: wow. Odori, spezie, rumori, trombe, urla, canti, sculture di burro e petali di fiori, sguardi, aquiloni, templi, santi, scimmie, puzza, colori, cremazioni, traffico… si potrebbe definire un opposto, ma dopo lo choc iniziale capisci che è la medesima rappresentazione di quanto vissuto le settimane precedenti semplicemente in un grado di manifestazione diverso: l’ordine e l’armonia in mezzo al caos, in entrambi i casi.
G: Cosa bisogna assolutamente sapere per andare da quelle parti?

G: Che l’imprevisto e la natura si possono materializzare da un momento all’altro, sia per aiutarti ma persino per scombinare i programmi. Più volte durante le tre settimane abbiamo dovuto cambiare itinerario; una volta perché una strada non c’era più, un’altra perché una bufera di neve imperversava dove dovevamo passare, un’altra perché siamo stati male, perché può accadere anche questo. Il fisico in altitudine risponde in modi imprevedibili su ognuno; io, che ero la meno preparata del gruppo, sono quella che ha sofferto meno (i miei compagni si svegliavano di notte con la sensazione di soffocare), ma per me il freddo è stato un incubo. Eravamo molto ben equipaggiati, ma dormire sulla neve mi ha riempito di reumatismi e attraversare ghiacciai all’alba mi ha fatto crollare. Considerate che malgrado l’idillio raccontato prima le prove fisiche da affrontare sono notevoli: oltre che essere stanchi la mente se ne va un po’ per conto suo, e dai 5'000 in poi io non riuscivo nemmeno più a scrivere. Dunque, consiglio spassionato, aggiungete almeno tre giorni di scorta al vostro itinerario normale, anche perché a volte fermarsi un giorno in più nello stesso posto aiuta ad acclimatarsi, oltre che riposare un po’.
G: A chi consiglieresti il viaggio e a chi lo sconsiglieresti?
G: Lo sconsiglierei a chi ama le comodità, la precisione e a chi vuole andare in quei posti per poter dire “l’ho fatto anche io”. Non è una prova a chi è il più figo, anche perché lì essere fighi può voler dire saper rinunciare e tornare indietro. Occorre rispettare ma soprattutto rispettarsi tantissimo, e al minimo segnale reagire di conseguenza: in quei posti un’imprudenza o aver sottovalutato un sintomo possono anche rivelarsi fatali. Sconsiglio la vacanza anche ai super amanti del nulla e dei viaggi in solitaria: la valle del Khumbu, visto che è quella che porta all’Everest, è forse tra i percorsi più tampinati. Dormire in tenda può già essere una buona alternativa, ma sappiate che comunque il deserto è un’altra cosa.
E invece mi sento di consigliarlo a tutti gli altri, purché si sia ben equipaggiati, con un minimo di condizione fisica e si abbia voglia di toccare il nulla… per lasciarsi a sua volta toccare da lui.
G: Racconta un momento indimenticabile del tuo viaggio

G: Ce ne sarebbero molti, ma il giorno dell’ascesa al Kala Patthar è stato di sicuro il più intenso. Quel giorno abbiamo camminato 19 ore, e l’inizio per me è stato traumatico. Ci siamo svegliati alle 3, anche se non è che si possa dire di aver dormito, in quanto ci trovavamo sulla neve e sopra i 5'000 metri. Era buio e un freddo che sento ancora nelle ossa, probabilmente dovuto alla stanchezza. Per arrivare ai piedi del monte dovevamo attraversare un ghiacciaio e quando siamo arrivati nel mezzo ho avuto una crisi di ipoglicemia. Ho cominciato a sudare freddo, i vestiti gelidi mi si appiccicavano addosso e non mi reggevo più in piedi: ho cominciato a piangere e sono crollata, non ne potevo più.
I miei compagni in quel momento sono stati fantastici, fino a quando a poco a poco ho ritrovato la ragione e la forza di continuare. Con il sorgere del sole poi è cambiato tutto, e il panorama che si è aperto ai miei occhi era di una sontuosità rigenerante pazzesca. Eravamo circondati dagli 8000 e il Pumori svettava dinanzi a noi, montagna che per noi ticinesi vuol dire molto (negli anni ’70 c’è stata una spedizione finanziata anche da molti privati in cui perse la vita un noto medico della regione). Salire sul Kala Patthar non richiede alcuna tecnica particolare, ma vi assicuro che camminare a quell’altitudine è stato addirittura comico: una fatica immensa anche se in sé, ossigeno a parte, fisicamente di fatica se ne fa ben poca. Insomma, mi ricordo che ho fatto del gran ridere.
In cima invece cambia tutto, o meglio, è come se qualche cosa dentro te si spegnesse permettendoti finalmente di VEDERE; un po’ come spegnere la luce per osservare meglio una candela, anche se sì, lo so, lì la candela è grande come il sole e ti acceca ma va be’, ci siamo capiti… spero. Ecco: siamo rimasti due ore così, imbambolati, ad osservare.
Ogni tanto ci giravamo un po’, e via, rimbambiti a ubriacarci di magnificenza.
È stata la prima volta in cui ho provato una sensazione di coesione totale con l’attorno e la sensazione di essere in completa armonia con il flusso della vita: accade ciò che deve accadere, sempre, inevitabilmente. Ecco, questo è uno di quei posti in cui ancora oggi vado a rifugiarmi con la mente quando ho bisogno di capire determinate situazioni o di riappropriarmi di una sorta di fiducia che il proprio giusto possa accadere, e tornarci oggi è come esserci allora: riempie.
Poi il rientro è andato da sé e di racconti ce ne sarebbero ancora molti, tra cui un atterraggio d’emergenza avvenuto in India… ma questa è tutta un’altra storia, che più che per Terre Estreme, la dovrei scrivere per terrore estremo ;-)
Ringraziamo Giada per il suo racconto davvero bellissimo.
Come sempre, prima di salutarci, ecco la gallery che ricorda il viaggio in Nepal!

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