L’aereo è appena atterrato all‘Aeroporto Internazionale Imam Khomeini di Tehran, e sono molto emozionata: anni di letture di scrittrici iraniane mi hanno riempita la mente di macchine Paykan nel traffico congestionato della capitale iraniana e di samovar, e ancora non riesco a credere di essere qui. Già sull’aereo ho come la sensazione di sentirmi a casa, come fossi giunta in un luogo conosciuto. Sono le persone che fanno un paese, non il loro governo: qui sono sorridenti, gli occhi che ti accolgono, come ti volessero abbracciare con iride e pupille. Tutte le donne mi concedono chi un sorriso, chi una pacca sulla spalla mentre passo nel corridoio dell’aereo, un modo di esprimere la felicità che una donna sola abbia deciso di visitare il loro paese in bilico tra il fascino e la paura.
Sul velivolo i passeggeri erano quasi tutti iraniani, infatti davanti allo sportello del rilascio dei visti siamo solo in due. Al primo hanno rifiutato il visto: è un signore francese sulla cinquantina, biondo e con piercing al sopracciglio, che mi spiega non avere alcun nominativo di una persona che lo aspetta in Iran, nè una prenotazione alberghiera.
Per entrare nel paese, ci sono due possibilità: richiedere un visto direttamente all’Ambasciata dell’Iran, o richiederlo all’arrivo in aeroporto. Quest’ultima opzione è la più rischiosa: come mi ha riferito l’addetto dell’Ambasciata dell’Iran a Muscat (una delle ambasciate più tristi in cui sia mai stata, con le lucine da presepe tutt’intorno i vetri che separano gli impiegati dalla sala d’aspetto, a dare un tocco chic), gli italiani non hanno solitamente problemi a ottenere il visto all’arrivo, però non è scontato che questo venga concesso: sarà l’addetto dell’ufficio apposito a decidere. Mi riferiscono che comunque non è detto ti facciano entrare nel paese anche se già in possesso del visto. Quando si decide di visitare l’Iran, si è in mano al fato.
Quindi, essendo abbastanza rischioso arrivare all’aeroporto di Tehran senza un visto, secondo voi la sottoscritta che opzione ha scelto? Ma la seconda, ovviamente! Confidando nella bontà degli iraniani, mi sono imbarcata per l’Iran senza un visto, quasi sicura che me l’avrebbero rilasciato all’arrivo. Inshallah.
Ammetto che la disinvoltura che di solito mi contraddistingue all’arrivo in un aeroporto, questa volta non c’è, e se c’è, la sto tenendo ben nascosta sotto il foulard azzurro che mi copre i capelli. Il ragazzo allo sportello dei visti mi penetra con gli occhi e mi sorride mentre mi porge un foglietto da compilare con i miei dati anagrafici, il numero e la data del volo di rientro (senza il quale non ti rilasciano il visto all’arrivo), e il nominativo (col numero di telefono) di chi mi ha invitata in Iran. Poichè non avevo prenotato un hotel, ho scritto su un foglietto (i miei soliti foglietti vaganti) nome e numero di telefono dell’amica iraniana conosciuta in Cina che mi ha invitata a Tehran. Il bel ragazzo mi indica una sedia alle mie spalle e mi chiede di sedermi e di attendere cinque minuti.
Non appena mi seggo, il signore francese con piercing mi si avvicina e mi chiede se sono in possesso del nominativo di un iraniano che mi ospiti, e quando gli dico di sì mi chiede con gentilezza se posso passarlo anche a lui: non avendo nè una prenotazione alberghiera nè un nominativo, lo metteranno sul primo aereo per la Francia in partenza la mattina successiva. Faccio per dirgli che sì, il nome di un iraniano ce l’ho, ma non posso darglielo senza chiedere il permesso all’interessato, quando un uomo in divisa gli si avvicina e gli riferisce che il suo passaporto è stato confiscato, e gli verrà ridato domani mattina al check-in. E tanti saluti.
I cinque minuti mi paiono interminabili mentre mi chiedo cosa stiano controllando da dietro quella porta chiusa, e comincio a stringermi contro il petto macchina fotografica e computer, come per proteggermi da un imminente rifiuto. Poi il ragazzo esce dalla stanza e mi chiama. Quando mi avvicino al vetro che ci divide, i suoi occhi incontrano i miei e mi dice “Elisabetta. Beautiful name”. Poi mi indica lo sportello di fianco, cui devo consegnare un foglietto con su scritto “60 euro”. Lo sporgo all’uomo che mi sta aspettando, pago, e mentre mi consegna un altro foglio timbrato e firmato sulla cifra pagata, mi dice con voce suadente: “Welcome to Iran”.
Torno nuovamente dal bel ragazzo, il quale tiene già in mano il mio passaporto aperto sulla pagina con la mia foto, che sta guardando con occhi languidi: “Elisabetta: Beautiful name. Beautiful photo. Beautiful girl. Welcome to Iran”. E mentre mi porge il passaporto con il visto di 15 giorni che campeggia sulla prima pagina, mi sorride con occhi maliziosi: un ingresso così non me lo sarei mai aspettato: benvenuta nella Repubblica Islamica dell’Iran.
Ps. Vi svelo cos’hanno fatto i signori dell’ufficio visti durante quei cinque interminabili minuti: hanno telefonato alla mia amica per verificare se fosse vero che mi ha invitata, per sapere che lavoro fa, dove ci siamo conosciute, qual è il suo indirizzo, e per ammonirla di essere responsabile per me, qualunque cosa dovesse succedere. Con l’Iran non si scherza.