Magazine Diario personale
«Come mai porti la fede al dito?». Era pura curiosità, niente di più, no, nient’altro. Infatti, al sorriso imbarazzato della donna che stava in piedi davanti alla scrivania lucida e ingombra di documenti impilati con cura e fermati da oggetti pesanti, non seguì nessun’altra domanda. Era solo curiosità visto che, in assenza di risposta, l’uomo cambiò argomento. «Chinati» le disse con voce incolore. Ma come?, proprio lì nel suo ufficio?, proprio lì accanto alla stanza delle fotocopie dove andavano e venivano di continuo i suoi colleghi, a due passi dalle macchinette del caffè e all’ascensore?, si disse la donna. «Chinati», ripeté lentamente l’uomo con in faccia un sorriso ironico. La donna, incredula, rimase immobile. «Chinati e guarda la tua calza. È smagliata. Ha una smagliatura che parte dalla caviglia». Lei si chinò e arrossì tutta. Ma quell’imbarazzo non durò a lungo. L’uomo, che fingeva di guardare alcune carte spostandole da una parte all’altra della scrivania, le disse, con il tono di chi domanda una tazza di caffè «Perché adesso non mi domandi scusa?». La donna notò in lui una serietà che non lasciava spazio né all’ironia né allo scherzo. «Mi scusi», disse senza esitare e con un filo di voce, come se domandargli scusa per la propria orrenda calza smagliata fosse la cosa più logica del mondo. «Non ho sentito», disse senza guardarla, e sollevando il suo corpo grande, poggiò le mani sulla scrivania in attesa di risposta. La donna, che dal centro della stanza non aveva mosso nemmeno un passo, lo guardava con un’espressione sorpresa, mentre lui si fingeva intento a misurare il tavolo con il palmo della mano. Forse, pensava lei, per quella maniacalità per l’ordine e la puntualità, che in ufficio conoscevano e temevano tutti, contava i minuti trascorsi tra ordine ed esecuzione dell’ordine, forse, le dava il tempo di pensare e di riprendere fiato. E lei ci provava a fare il punto della situazione mentre scorreva con lo sguardo il portapenne pieno di matite appuntite, il ficus perfettamente lucido, la libreria piena zeppa di faldoni tutti uguali e quotidianamente spolverati, le agende impilate in ordine decrescente, il computer circondato da spray lucidanti e panni perfettamente ripiegati uno sull’altro. La donna ci provava con tutta se stessa a capire cosa fosse successo, visto che dal giorno della sua assunzione, tre settimane prima, lui nemmeno l’aveva mai salutata, e come mai adesso la tenesse in ostaggio nel suo ufficio e perché, soprattutto, lei non si fosse ancora ribellata a quel martirio, le pareva del tutto assurdo e irrazionale. L’uomo alzò lo sguardo dalla scrivania lasciandoci le mani larghe puntate sopra. «Il problema è che la tua testa fa troppo rumore perché tu possa ascoltare le mie domande e soprattutto perché tu possa darmi risposte sensate». L’espressione era proprio quella che aveva durante i Consigli di Amministrazione quando, per far valere le sue proposte più innovative, tirava fuori tablet e argomenti convincenti, sicuro di spiazzare gli astanti e riuscendoci ogni volta. «I pensieri che affliggono la tua testolina sono come le palline di un flipper», e fece un mezzo giro della scrivania per trovarsi a pochi passi da lei. «Dling, dling... dling... » e rise, «non li senti? Non senti che giri a vuoto e che stai per andare in tilt?, eh?». La donna, umiliata, aveva abbassato lo sguardo e cercava di evitare che una grossa lacrima le precipitasse sulla guancia piena e colorita dalla vergogna. Di lui vedeva scarpe fuori misura e la piega dei pantaloni che vi cadeva sopra, perfetta. Dell’uomo sentiva il respiro calmo e tutta la disposizione a comprenderla: non sopportava le imperfezioni, quella calza smagliata l’aveva fatto andare fuori dai gangheri, pensò giustificando quell’assurdo accanimento che durava ormai da venti minuti, tra silenzi lunghissimi e brevi frasi sprezzanti. «Dling... dling... », e iniziò a colpirle la testa della donna con le nocche delle dita, piano e poi più forte «Stai ferma, cazzo!», le disse seriamente irato quando lei sollevò istintivamente la mano per allontanare la sua «non permetterti di toccarmi», concluse con una freddezza spaventosa. Gli ci volle un po’ per calmare il respiro che dopo quell’accenno di ribellione si era fatto ansioso. Le prese il mento tra indice e pollice senza alcuna delicatezza e poi lo lasciò. Le si mise di spalle. «Inginocchiati» le ingiunse. Lei guardò prima la porta per assicurarsi che fosse ben chiusa, poi scese lentamente piegandosi sulle ginocchia. Quando fu per terra con il capo chino e le mani sulle cosce, l’uomo intervenne «Allora sei pazza» e l’afferrò per i capelli quel tanto che bastò a mandarle la testa in fiamme. Comunque lei non fiatò. Comunque non mosse un muscolo, peccato, dovette pensare lui, per quella smorfia quasi invisibile sulle labbra. E infatti riprese «Che cazzo di rossetto hai messo, eh?» e stavolta usò un tono forte. Poi le passò il pollice sulle labbra che pulì subito con l’elegante fazzoletto che aveva tirato fuori dalla tasca. «Non voglio che metti certa roba addosso. Né addosso a te né addosso a me» e deciso, mise mano alla cintura che slacciò solo in parte, lasciando penzolare la lunga lingua di cuoio nella fibbia lucida. «Dammi la bocca» lei avvicinò il viso al pantalone e alla sua cinghia guardandolo dal basso con un’espressione instupidita. «Ah... finalmente... » mormorò a mezza bocca l'uomo. Era esattamente quel misto d’incertezza, stupore e supplica che voleva guardare, era quel “dimmi cosa devo fare perché non capisco più un cazzo” che l’uomo voleva sentire. Soprattutto da lei, da quella nuova super laureata con milioni d’idee tutte valide per la testa e che sculettava per l’ufficio così sicura di sé da levargli il sonno. «Ah... » e alzò gli occhi al cielo. Tanti anni di conduzione esemplare del reparto non potevano essere adombrati da una creatura del genere. Tutte quelle colazioni di lavoro, brainstorming e Consigli di Amministrazione non potevano essere minati da quel corpicino perfetto e da quella testolina capace. «Ah... » e prese tra le mani alcuni centimetri di cuoio. La cintura era abbastanza larga da non lasciare segni, abbastanza robusta da produrre un suono sordo.
«Tira fuori la lingua... tutta», e lei lo fece.
Lui le infilò la cintura nella bocca spingendola il più possibile in fondo alla gola, finché grosse lacrime non vennero su tutte assieme, come un orgasmo mentale, una premonizione, un assaggio di tutte le volte che l'avrebbe chiamata in ufficio. «Sei bravissima», le disse dopo averle inferto sei colpi sulle labbra piccole e ancora macchiate di rossetto. «Adesso vattene». Si voltò e andò a sedersi al suo posto. «Ho detto: torna al lavoro e tieni le mani bene in vista. Non andrai al bagno per la prossima mezz’ora: puttana». La donna si alzò, rimase ferma davanti a lui ancora qualche istante e poi si avviò lentamente verso la porta. «Come si dice in questi casi?» le disse fermando la mano di lei sulla maniglia. «Grazie, Padrone». «Prego», e le fece cenno di uscire, sorridendo con un’espressione vagamente soddisfatta.
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