VITA DI CODA STORTA, GATTO BASTARDO. Cap. 1

Da Nubifragi82 @nubifragi

Della non esaltante nascita di Coda storta.

Venni al mondo tra le imprecazioni di mia madre. Era stato un travaglio penoso: mi avevano preceduto tre gattacci di notevole stazza, tre infami che barattarono la propria intelligenza con la mia prestanza fisica. Non oso immaginare quanto possa avere patito quella sgualdrina di nostra madre. O no, per l’amor del cielo, non tacciatemi dopo appena tre righe di irriconoscenza verso la gatta che mi diede la luce. Se ho l’ardire di appellare mia madre con tale epiteto avrò le mie ragioni, no? E aggiungo: presto vi saranno riferite. Ad ogni modo, io fui lasciato per ultimo, pigiato nell’utero da quei marcantoni che dovrei chiamare fratelli. Avevano fretta gli imbecilli, come se avessero qualcosa da dire al mondo, come se la natura, che tanto gli aveva donato in muscoli e zampe, gli avesse parimenti forniti di un intelletto pronto o di una qualsivoglia attitudine a fare qualcosa che non fosse una razzia o a sverginare gattine di primo pelo, a esprimere un concetto che non fosse “Vattene o t’ammazzo”, “Questa gatta la ingravido io”, “Questa è la mia zona”. E voi umani, inebetiti da letture di Konrad Lorenz e Charles Darwin, atrofizzati da documentari in cui prestanti leoni squartano deboli gazzelle, direte che un gatto pur sempre un felino è e la zampa più lesta, quella più forte e decisa ha sempre la meglio in questo sporco mondo. E io vi dico di no. Chi più visse tra i miei fratelli si godette la metà dei soli estivi che ho goduto io. E mi riferisco a quel futuro castrato, obeso e del tutto rimbecillito che crepò d’infarto accanto ad una stufa in una notte d’inverno. Ma questa è un’altra storia e più avanti, se mi aggrada, ve ne parlerò. Dove eravamo rimasti? Si, certo, il travaglio di mia madre. Uscito il terzo dei miei ignobili fratelli sarebbe finalmente toccato al sottoscritto dire “Ciao mondo!” Ma si da il caso che di quelle stronzate non avevo per niente voglia. Pur costretto sotto il culo dei tre imbecilli, non stavo per niente male nella pancia di mia madre. E poi, ora che quei tre gaglioffi mi avevano liberato dal loro immane peso, davvero mi sembrava di sguazzare in paradiso. Aveva un bel da fare mia madre a contrarre il bacino nel tentativo di spingermi fuori: abituato alle costrizioni di una convivenza forzata di due mesi, quelle timide compressioni mi parevano tutt’al più carezze. Poi non so come e non so perché, quella gattaccia riuscì nel suo intento e mi sparò fuori come un missile. Vidi una gran luce intervallata da ombre che si muovevano in lontananza. Poi un’ombra più grande si appropinquò sopra il mio corpo. Non potevo distinguere molto, ma ero certo si trattasse di mia madre. Ci sono tanti modi per essere accolti nel mondo dei vivi. Diceva il Buddha (si, sono un gatto istruito e ve ne renderò conto) che la nascita è il fondamento della vecchiaia e della morte. Gliene do atto: altrimenti perché si nascerebbe piangendo? Il pianto è il primo contatto con ciò che ci circonderà. Non piangere è sintomo di un problema. Devo approfondire la questione, lo ammetto, ma so per certo che il neonato che non piange ha un qualche problema. Alcuni anni dopo, in casa di un umano, vidi un filmato nel quale una donna dava alla luce un figlio. Costei non piangeva. Allora il dottore lo scosse un poco e il piccolo finalmente provò agli astanti che sapeva anch’esso lagnarsi come un rompicoglioni qualunque. Orbene, mia madre, non vedendomi frignare come un vitello, non per buon cuore ma in quanto, ripeto, sgualdrina, decise che pure io avrei dovuto esordire come tutti gli altri. “Tanto dolore per mettere al mondo una racchia del genere” disse. Grazie mamy, quelle dolci parole le porto ancora nel mio cuore ogni volta ti penso. Non si preoccupò nemmeno di controllare il mio sesso, preferì bollarmi come femminuccia gracile e di brutto aspetto, fondamentalmente destinata a tornare al più presto da dove era venuta. Non male: cartellino rosso dopo dieci secondi dall’esordio. Quelle ombre che vidi guizzare in lontananza si avvicinarono al sottoscritto. Erano umani, ma questo lo capii solamente in un secondo momento. Certo, a loro non voglio dare colpe, in fondo non ero altro che uno dei quattro bastardi figli della gatta bastarda che tutti i maschi bastardi del vicinato ha ospitato sulla groppa. Però, ragazzi miei, che tatto! “Oh mio Dio, ma è un mostriciattolo!” “Questo campa poco, domattina lo troviamo stecchito” “Beh, dopo tre bei gatti come quelli” “Poverino, magari soffre” “Ma che soffre! Nemmeno si accorge di essere venuto al mondo ridotto com’è” “Guarda, ha pure la coda storta” Quintali di ottimismo sulla mia pelle. Beati voi umani. Per voi un neonato è sempre bello. Anni dopo in una delle vostre case vidi il nuovo arrivato di una allegra famigliola: era un bambino talmente brutto, e vi giuro non esagero, ma talmente brutto che non potevo reggere il suo sguardo. “Guarda amore, guarda il gattino!” e mi avvicinavano quello sgorbio pieno di rughe e rosso come quegli stitici che spingi spingi ma non c’è verso e io che chinavo la testa e facevo “Miao” e loro “Senti amore! Lo senti il gattino che ti saluta?” ma il mio non era un saluto, se avessero potuto capire cosa avevo veramente detto mi avrebbero preso a calci in culo e addio pappa delle due del pomeriggio. Per noi gatti, insomma, il buon cuore non è previsto: se sei brutto, gracile, malaticcio e c’hai pure la coda storta devi morire entro la mattina successiva. Punto. E mia madre, eviterò di ripetere l’epiteto per non infastidirvi, invece che credere nel miracolo, invece di fare come il pastore della buona novella che abbandona novantanove pecore per cercarne una smarrita, non si diede nemmeno la briga di ripulirmi da placenta e affini e mi lasciò così, indecoroso, all’appuntamento con la morte. I miei fratelli rimembrarono come quel mezzo aborto del sottoscritto fosse comunque un comodo appoggio per le loro chiappe e una volta sistemati si misero a poppare dalle mammelle come forsennati. Non una goccia per il moribondo dalla coda storta, non sia mai! Così avrei dovuto trascorrere la mia breve esistenza: sporco, schiacciato sotto il culo dei miei fratelli e senza nemmeno assaporare una goccia del latte materno. Sotto quel peso è probabile che sarei morto di lì a poco per asfissia da culi fraterni. Fu la curiosità degli umani a procrastinare la mia dipartita di qualche ora. Ricordo che una mano sollevò uno ad uno quei tre parassiti e disse “Guarda Papà! Poverino… E’ già morto, papà?” Il padre avvicino la mano al mio viso. Era il primo contatto con un umano della mia vita. Toccò da qualche parte nel mio capo, tentò di fare qualcosa che allora non potevo capire, quindi emise il suo responso “Questo disgraziato ha pure un occhio guercio. E’ ancora vivo, ma non ne avrà per molto.” Ecco, pure un occhio guercio mi portavo appresso. E così mi addormentai per quello che avrebbe dovuto essere il primo e unico sonno della mia vita.



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