"Vita di Pi" non è la storia incredibile di uno sfortunatissimo naufragio al quale un ragazzo indiano è sopravvissuto pur rimanendo duecentoventisette giorni disperso in mezzo all'Oceano Pacifico. Non è neppure la storia di come questo ragazzo è riuscito a gestire il feroce rapporto di convivenza tra lui e Richard Parker: la tigre del Bengala salvatasi anch'essa dall'affondamento della medesima nave e piombata casualmente sulla sua stessa scialuppa. "Vita di Pi" è un racconto spettacolare, che si serve di questi (e di altri) elementi per (non) parlare del delicato e aperto contrasto che divide da sempre scienza e fede.
Il maestro Ang Lee prende il romanzo del canadese Yann Martel e lo utilizza per realizzare la sua versione personale di "Big Fish". Ma diversamente dalla favola Burtoniana, confinata al contrasto padre-figlio e al quale noi eravamo chiamati a partecipare unicamente in qualità di spettatori passivi, in “Vita di Pi” la partecipazione di una porzione degli spettatori - quella diffidente alla fede e aggrappata alla scienza - diventa parte attiva più che mai, dal momento che viene fatta sedere simbolicamente sulla stessa sedia su cui si accomoda lo scrittore che va ad incontrare Piscine (Pi è un diminutivo) per intervistarlo e prendere appunti sulla sua avventura, al termine della quale - gli è stato anticipato - si convincerà a voler credere in Dio.
Oscillando senza sosta tra razionalità e il suo opposto, e accarezzando prudentemente la connessione tra uomo e natura, Ang Lee ci trasporta nel viaggio straordinario avuto luogo durante l’adolescenza di Piscine e per farlo si avvale del suo tocco poetico e incantato e del rafforzamento di effetti speciali sorprendenti e magnetici. Suddivisibile facilmente in tre spaccati, uno dei quali - il centrale - comprensibilmente più esteso e più coinvolgente per attrattiva ed efficacia, “Vita di Pi” semina caparbiamente i suoi costituenti basilari nel corso della parte iniziale, lasciandoli accrescere a lungo, e in silenzio, per andarli poi a raccogliere e ad utilizzarli durante la spiazzante fase di chiusura. Con la furbizia di questa tecnica Lee assesta un doppio colpo da maestri esibendo una svolta valida a lasciare di sasso entrambi i tipi di spettatori in ascolto e sollevando inoltre il valore della sua pellicola quel tanto che basta da restituirgli un peso maggiore confronto a quello assorbito in precedenza.
Così tra giochi di luce fosforescente, scene ammalianti di balene che dal profondo degli abissi balzano fulminee fino in cielo e visioni oniriche luccicanti proiettate al di sotto della superficie piatta dell’acqua notturna, ci lasciamo immergere da un racconto strabiliante, avvincente e all'altezza di deliziare insieme gli occhi e la mente. Ang Lee si dimostra astuto e più convincente di qualsiasi altro esperto in materia di fede e il suo tentativo di invitarci a seguirlo è decisamente il più efficace che sia mai stato messo a punto.
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