VIta di Pi
di Ang Lee
con Suraj Sharma, Irrfan Khan
Usa, 2012
durata 125'
A fronte dei continui cambiamenti, raccontare per immagini è ancora una delle funzioni principali della settima arte, probabilmente la più importante. Un esempio di tale affermazione è sicuramente “Vita di Pi”, il nuovo lavoro di Ang Lee che, narrando le conseguenze di un naufragio, quello di Piscine, adolescente sensibile ed attratto dalle religioni, e di Richard Parker, soprannome dato alla tigre che gli farà compagnia in quell’esperienza, prova a parlare in maniera semplice, ma non banale del senso della vita, ed in generale dell’esistenza umana. Nel farlo il regista Taiwanese lavora in due direzioni, ugualmente valide a rafforzare l’assunto. Da una parte amplifica l’atto stesso del “narrare”, costruendo il film stratificato a più livelli, ognuno dei quali costruito sulle parole del protagonista, a cui dapprima viene chiesto di esporre quanto gli è accaduto, affinché la sua impresa possa ispirare uno scrittore alle prese con la sindrome del foglio bianco. Successivamente, all’intero stesso di quel resoconto Pi è costretto a riformulare la vicenda con una versione meno vera, ma più credibile agli occhi di chi, subito dopo il salvataggio, gli chiederà una versione più plausibile, anche se meno vera, indispensabile per poter otenere i soldi per il risarcimento dei danni subiti. Dall’altra, riferendosi ad un immaginario letterario e romanzesco che trova nelle opere di uno scrittore come Ruyard Kipling, ripreso nella cornice esotica e nella dimensione avventurosa che il film condensa negli espedienti che Pi metterà in atto per sopravvivere al destino già scritto, un punto di riferimento nuovamente legato alla capacità di affabulare. Un surplus di istanze narrative che Ang Lee attualizza e ci consegna attraverso un apparato visivo all’avanguardia, che, soprattutto quando deve dare respiro al mistero della vita che cerca di capire, e ci riferiamo ai vari momenti in cui il divino si manifesta attraverso la bellezza ma anche l’indifferenza del paesaggio naturale, avvicina la perfezione ed una poesia della modernità già presente in un film come “Avatar”(2009). Una sfida non da poco, quella di Lee, che in un solo colpo riassume il meglio del cinema dell’ultimo millennio, quello che intrattiene, e nello stesso tempo riflette senza appesantire lo stato d’animo dello spettatore. Obiettivo riuscito solo in parte perché se è vero che la classicità post moderna del regista è perfetta per gli intenti divulgativi e spettacolari che si propone, al tempo stesso non riesce ad alzare i contenuti a livello delle immagini, che finiscono per polarizzare l’attenzione con la loro meraviglia, relegando la filosofia new age ed il punto di vista ecologico ambientalista ad appendice senza pretese.