Magazine Cinema
La carica dei 101
I migliori film del cinema giapponese dal 2000 a oggi scelti dalla redazione di Sonatine
Vital (ヴィタール, Vital). Regia, soggetto, sceneggiatura, fotografia e montaggio: Tsukamoto Shin’ya. Musica: Ishikawa Chū (la canzone “Blue bird” è interpretata da Cocco). Effetti speciali: Oda Takashi. Interpreti e personaggi: Asano Tadanobu (Takagi Hiroshi), Tsukamoto Nami (Ōyama Ryōko), Kiki (Ikumi), Kazuyoshi Kushida (padre di Hiroshi), Lily (madre di Hiroshi), Kunimura Jun (padre di Ryōko), Kino Hana (madre di Ryōko), Kishibe Ittoku (Dott. Kashiwabuchi), Rijū Gō (Dott. Nakai). Produzione: Tsukamoto Shin’ya, Kusakabe Keiko, Joo Kiyo, Kusakabe Kōichi, Kawahara Shinichi per Kaijū Theater. Distribuzione: There’s Enterprise. Durata: 86’. Uscita nelle sale giapponesi: 11 dicembre 2004.Distribuito in Italia in DVD da Koch Media Italia.
Sitges Catalonian International Film Festival 2004: New Visions Award a Tsukamoto Shin’ya. Brussels International Festival of Fantasy Film 2005: Silver Raven a Tsukamoto Shin'ya. Fantasporto 2005: Orient Express Section Special Jury Award a Tsukamoto Shin'ya. Mar del Plata Film Festival 2005: nomina per Miglior Film. Yokohama Film Festival 2006: Festival Prize per Miglior attor non protagonista a Kishibe Ittoku. Altri Festival: Venezia, Toronto, Londra, Monaco, Francoforte, Seattle, Mar del Plata (Argentina), Città del Messico, Reggio Emilia. Nel corso di un incidente stradale, la giovane Ōyama Ryōko rimane mortalmente ferita, mentre il suo ragazzo, Takagi Hiroshi, studente di medicina, perde completamente la memoria. Nonostante le difficoltà e lo spaesamento, il giovane decide di proseguire i suoi studi universitari nel tentativo di fare chiarezza sui propri trascorsi. Durante le lezioni, Hiroshi conosce Ikumi, una ragazza taciturna e solitaria che si rivela presto sensibilmente attratta da lui. Nell’arco di un quadrimestre, i due instaurano un’ambigua e complessa relazione, mentre Hiroshi inizia a dissezionare il corpo del cadavere di una donna, riconoscendo nelle sue fattezze il corpo dell’amata perduta. Progressivamente, attraverso una serie di coinvolgenti visioni, lo studente inizia a ricordare il proprio passato e il turbolento legame con Ryōko. L’analisi dei tessuti e delle viscere rimanda ad altro, ad un intenso rapporto perduto, in cui il piacere si connatura al dolore, alla ricerca dell’eccesso per assaporare la vita. Un rapporto di fisicità estrema che Hiroshi, quasi inconsciamente, emula con la nuova compagna, la quale percepisce tra loro, ingombrante, la presenza della defunta. Mentre l’indagine si fa più profonda, il trasporto del giovane aumenta, le sue allucinazioni e l’impeto dei suoi ricordi si sovrappongono alla realtà del presente, fondendosi con essa. Diviso tra la gelosia di Ikumi e la devozione verso il corpo di Ryōko, Hiroshi si avvicina alla famiglia di quest’ultima, venendo a conoscenza della verità sulla sorte delle sue spoglie. Con il chiudersi del quadrimestre di medicina, il giovane avrà un’ultima occasione per porgerle un estremo saluto, prima di lasciarla andare e riscoprire definitivamente se stesso.
Vital segna un simbolico punto di svolta nella carriera di Tsukamoto Shin’ya, traslando la commistione organica di carne e ferro delle opere precedenti, a favore di un approccio ontologico nella sua disanima caratteriale dell’essere umano e del suo relazionarsi con il mondo. Il regista predilige infatti un discorso maggiormente intimista, cercando di raccontare il rapporto tra identità e memoria in relazione alla scissione della coppia e all’indagine viscerale sul corpo e i suoi resti fisici. La salma del defunto diviene un tempio dove riscoprire il rapporto con l’altro, prematuramente interrotto e abbandonato. Gli intenti dell’autore sono alti, la ricerca si trasforma in composizione artistica rivelando un’attenzione fondamentale per la bellezza, a discapito di un grottesco che si tenta di neutralizzare a favore di un estetismo dove la componente spirituale trascende la materia. Dal corpo sul quale s’addentra la lama del bisturi si passa a dettagliate illustrazioni anatomiche, ispirate alle tavole di Leonardo Da Vinci, indagando la carne inerme con l’imperativo di mantenere vivo il desiderio di conoscenza che si spinge oltre la materia: dove risiede, esattamente, l’anima umana? Tsukamoto intende descrivere l’amore che unisce la coppia, il sentimento universale che supera il confine della morte, un rapporto che lega le identità attraverso le carni scoperte, esibite con predominanza di particolari. Un universo materico che si sovrappone a quello naturale (ritratto on location ad Okinawa), sul quale l’autore si sofferma ampiamente, contrappuntando un ambiente incontaminato, le rocce, il mare, le frasche rigogliose alla glacialità asettica degli spazi interni ed urbani che fanno da sfondo all’agire dei protagonisti. L’elemento naturale dà vita al visionario luogo che si vede nel film, e che il regista definisce come “appena fuori dal confine”, e determina lo stacco, l’esplorazione che passa dalla città alla natura. Una natura intesa come oasi perduta alla quale si tende continuamente, punto di arrivo salvifico e ristoratore che al contempo non da la possibilità di affrancarsi totalmente dal presente. Permane dunque, fondamentale, un legame tra l’ambiente primigenio del ricordo e l’artificialità del contesto attuale, condizione che permette di raggiungere una rinnovata percezione di entrambi gli universi, ma che non può fare a meno di escluderne uno a discapito dell’altro. Persiste, nel corso del dipanarsi narrativo, il riemergere del rimosso, il tentativo di conciliazione con un presente che diviene difficile, a cui il protagonista sente di non poter appartenere, quasi il suo essere e la sua coscienza fossero legati indissolubilmente ad un passato che si configura come unica fonte di vita e di sicurezza. L’incertezza del tempo stesso e del suo trascorrere è caratterizzata da salti in avanti e passi indietro, situazioni che si ripetono, incontri del presente su cui si posano i tratti e i sintomi del passato, come l’attrazione e la repulsione nell’impossibile legame tra Hiroshi e Ikumi. Lo sguardo dell’autore si fa nostalgico, volto alla contemplazione di una bellezza che pare non poter spettare alla contemporaneità dei protagonisti, delineando al contempo un’interdipendenza profonda tra quella che è la loro esistenza nel presente e l’imprescindibile attrazione verso i trascorsi. Ritraendola con una fredda fotografia, l’autore racconta una metropoli contemporanea imponente, che avvolge il soggetto soffocandolo in riquadri e delimitazioni di specchi, vetrate, muri fatiscenti, impervi edifici ed una pioggia incessante. L’evasione da questo universo gravoso e privo d’affetti (si noti l’austera ed algida ambientazione della casa dei genitori di Hiroshi e la decadenza dell’appartamento in cui quest’ultimo si trasferisce) è nel sogno, in immersioni spazio temporali di un universo alternativo, nel raccordo che riconnette gli amanti in riva al mare, accoccolati su spiagge dal tepore accogliente, dove Ryōko danza energicamente, esprimendo grande dinamismo e indomita fisicità (in netto contrasto al suo corpo disteso, spento ed inerme). Un nuovo dialogo dell’autore attraverso il corpo, un’enfasi di gestualità in cui la leggiadria sincopata del movimento si relaziona alla terra e alla plasmabilità della sabbia, sulla quale la donna affonda e si adagia. Il corpo e le sue ramificazioni sono ancora un fondamentale territorio d’indagine, e a tal proposito, facendo riferimento alle primarie componenti dell’opera precedente del regista, diviene interessante considerarne un rapporto per inversione. Dove l’uomo di ferro di Tetsuo (1989) era un agglomerato, una massa eterogenea di elementi, in Vital l’avvicinamento all’oggetto significante è correlato allo spoglio delle carni, alla loro dissezione in profondità. Il corpo, la sua indagine e la sua ricerca, pervengono ad una risposta da cogliere al suo interno e ad una mancanza di necessità di mutamento per ottenerla. La fuga dagli automatismi e dalla disaffezione della città, il conseguimento della purezza dalla rinascita come parte della natura, è compimento del recupero dell’emotività e del sentimento in contrapposizione alla freddezza e all’apatia. Vital segna dunque una deviazione dal mondo esterno materiale ed artificiale a favore di una ricerca estenuante dell’astrattismo interiore, percorso che rimane ad ogni modo auspicabile (come accade tra presente e passato, natura e artificiosità) in virtù della compresenza di entrambe le componenti. Attraverso il risolversi dell’amnesia e della natura in relazione alla metropoli, Tsukamoto racconta l’era post-industriale e la posizione ambigua dell’identità dell’individuo, l’incapacità di comprendere e collocare se stesso in relazione al mondo di cui è parte integrante. Un rapporto da cui nasce la relazione profonda tra l’essenza immateriale dell’essere umano e il corpo organico delle spoglie mortali: affondare nelle carni del defunto al fine di mettere in luce la fragilità e la precarietà delle membra per scoprire la bellezza dell’anima. Il corpo si rivela investitura mortale a cui Tsukamoto contrappone la vastità dello spirito e della psiche che, nonostante il suo carattere etereo, tende imprescindibilmente alla materia per poter comprendere la sua essenza. Attraverso la dinamica narrativa dell’intreccio sentimentale, l’autore si dimostra capace di delineare un rapporto di interdipendenza tra quelle che sono le valenze di una corporeità terrena in relazione all’istanza immateriale dell’anima che in esso risiede. In Vital, la presenza pervasiva del post-umano è ancora assai significativa, trovando nuova linfa nell’accostamento con la bellezza e la delicatezza del sentimento. Seppur esteticamente privi di una caratterizzazione biomeccanica, che non è stata abbondata bensì assorbita (si tengano a mente i disegni di Hiroshi), i corpi, le menti, le pulsioni e i desideri da cui sono animati, rimangono gli elementi principali per comprendere l’agire dell’uomo e la sua affascinante conflittualità emotiva con il prossimo e lo spazio che lo circondano. [Luca Calderini]
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