di Augusto Benemeglio
Vittorio Pagano
Chi era Vittorio Pagano?
Un fanciullo che disperde la sua esistenza giocando nell’esaltazione del fatuo e del mistero, uno che ha dilapidato la sua poesia, dice Donato Valli, che lo conobbe bene e a cui Pagano consegnò (forse) l’eredità del suo ultimo (prezioso) lavoro: la traduzione della “Chanson de Roland”, che non è stata mai pubblicata, come moltissime – la stragrande maggioranza – delle sue poesie. Del resto il massimo del suo incarico fu dirigere ( gratuitamente) il supplemento letterario de “Il Critone”, un mensile dell’Associazione di Diritto Penale, di cui venivano stampate venti copie, tanti erano allora (1955) i cultori della letteratura nella provincia di Lecce.
Ai suoi esordi letterari, Ernesto Alvino disse di lui che aveva il gusto del macabro, del disperato mostrare d’avere, d’altra parte, la fantasia, l’originalità e la robustezza descrittiva che occorrono in tal genere di letteratura. Eppure visse solo di letteratura (della letteratura, disse Mario Marti, s’è fatta la ragione urgente della propria vita) e di sigarette, andavano bene tutte le marche, Nazionali, Alfa, perfino le cartine autarchiche e le cicche rimediate.
Chi era Vittorio Pagano? Questo – come scrive Ennio Bonea – “disordinato bohèmien anticonformista e trasgressivo, portato allo sberleffo e all’ironico sogghigno per il gusto di creare sconcerto o scandalo nella routine della buona e sonnacchiosa borghesia salentina?”
Francesco Lala, che lo conobbe al tempo della “ Vedetta Mediterranea” (1942) disse di lui che era un irregolare, uno scapigliato, un temperamento nervoso, ostinato, con carattere instabile e umorale. “Era il terrore delle nostre famiglie, che vedevano in lui un pericolo addirittura nefando, soprattutto quando leggevano certe sue poesie”.
E già mi vedo appeso ad una forca /sgangherato – ma fermo, irrigidito, senza un impeto d’aria che mi muova: /solo mi resta la pupilla sporca /di me, del mio cadavere, l’ordito /sanguigno di una legge, d’una prova /compiuta, antica, svalutata e nuova, /nel palio estremo dove l’infinito /regna come una mano che ci torca… /E non sarò poeta che in quest’atto definitivo…
Certo, a leggere certi versi e a vederlo nelle fotografie, con quel basco calcato sulla testa, la giacca sgualcita e sdrucita, con le tasche vuote rovesciate, l’eterna sigaretta tra le labbra, le spalle incurvate, le scarpe sporche e mezze rotte, qualche dente mancante, sembrava un “barbone” e si può capire come le mamme dei suoi amici non facessero salti di gioia nel vederlo. E poi – continua Lala – era oscillante, ora esuberante, estroverso, chiassoso, un attimo dopo cupo truculento, cominciava a drammatizzare tutto; e anche il suo umorismo era davvero poco gradevole, anzi macabro, grottesco, spettrale: “Quando leggete Rollinat, non vi sentite un serpe nel ventre che sale a strozzarvi piano piano?”
Secondo Luigi Scorrano, Pagano aveva quel gusto tipico provinciale della posa o della stranezza, con atteggiamenti teatrali ( un po’ da Grand Guignol : orrido e orripilante), ma anche pronto a rovesciare il tutto in tragico e farsesco. Al fondo di questa mutabilità di atteggiamenti e nell’esasperazione degli stessi c’era, forse, la necessità di una decisa autoaffermazione da realizzare anche in forme di esagerazione e di rottura.
Oreste Macrì, uno dei padri, insieme a Bo, della critica dell’ermetismo, dice che Pagano è affetto da ipertrofia barocco-simbolista; da maledettismo provincializzato; da ermetismo negativo e misticheggiante. E sarà ancora più spietato dopo la sua morte, “una morte disperata che non sarebbe stata per nulla consolata dalla sicura futura gloria”, parlando della sua opera poetica come di una “velleità populistica”. Rettificherà, ma solo in parte, il suo giudizio un paio d’anni dopo dicendo che la morte di Vittorio Pagano aveva chiuso per sempre la partita del novecentismo, erede del simbolismo frammentista e maudit, prezioso e raffinato. Ma non parlerà più, in seguito, della sua poesia, come invece aveva promesso di fare.
Chi era Vittorio Pagano?
Un vagabondo, un uomo sempre in fuga dalla sua città:
Ho sognato di treni sempre in fuga, /con un viso di diavolo: momenti/sudati, insudiciati, quando gli occhi pensano/…ed una pozza si prosciuga nella sabbia incapace di eventi, nell’incavo lasciato dai ginocchi/troppo a lungo preganti…
un sepolto vivo, un poeta crocifisso, che fece della poesia una monomania, l’unica vera ragione di vita; uno che quando parlava dei maudit francesi, Rimbaud, Baudelaire, Verlaine, ma anche Villon, Mallarmè, Corbìere, Maeterlimck, con cui s’era identificato, s’accendeva come un fuoco sacro; avrebbe voluto essere come loro, un’anima allo sbaraglio, ribelle ad ogni regola di vita, e della convivenza, un’anarchico del sentimento, pieno di aberrazioni fantastiche, un sensuale torbido e intricato, sempre con il tumulto, il delirio e la febbre addosso. Insomma, uno da vita spericolata – come dice una canzone di Vasco Rossi -, pieno di rifrazioni, anse, onde, vortici, fasci di mistero e angoli segreti, uno pieno d’ardori e di profonde torbide malinconie, uno capace di carpire l’osso, l’essenza, lo zoccolo duro della poesia, quella che sta sotto, nei luoghi segreti più sotterranei e impervi, dove per giungervi si rischia costantemente la perdizione, la follìa ; oh, vendere l’anima al diavolo per riuscire a dare all’ebbrezza quel ritmo, all’eccesso uno stile, agli abissi dell’immaginazione una grazia e un timbro; i sonetti, le odi, le, le ballate, le quartine, le terzine, i distici, versi dall’esatta scansione e dal preciso disegno, perfetti, come è perfetta solo la poesia quando è vera poesia.
Si schiacciò l’orizzonte come un limite /sulle dita annaspanti, e falchi vennero a tentare le corde di quell’arpa…La mia storia di carne s’è smentita / nelle macchie sorde della vita, come l’angoscia bianca di un poema…
Amico, la poesia non è solo un effondersi, un confessarsi, un godere o un soffrire di sé e del mondo – diceva Vittorio -, ma principalmente un atto di definizione, di costituzione in numeri fissi, di rivalsa dimensionale e canora contro il rovinio operatosi dalla dimensioni umane. E ti guardava allucinato, con quegli occhi un po’ spiritati, pieni di luce e d’esaltazione, occhi neri fondi incatramati con un balenìo in cui c’era dentro Rimbaud, che dopo aver giocato un po’ con il paradiso e l’inferno della poesia, se ne era andato a fare il mercante d’armi, c’era Baudelaire paralizzato e cieco da un occhio, col suo destino fatale, ardente come un vulcano e profondo come il vuoto, con tutte le benedizioni e i lamenti e le estasi dell’uomo sconvolto da echi che si ripetono in mille labirinti; c’era l’uomo che verga la parola maledetta, disdetta nei caratteri arcani del profeta e nelle pieghe sinuose dei teoremi della vita, ma non aveva nessun Verlaine a fargli da grancassa, come dice Bonea. Stava a Lecce e non a Parigi, ma poteva vivere in questa costante fuga immobile. Victor Pagano da Paris. E quando scriveva agli altri poeti non provinciali, agli altri poeti fiorentini, ai Luzi, ai Batocchi, ai Parrochi, Caproni, Gatto, Bigonciari, Vittorio Pagano riusciva a meravigliare, a stupefare per intelligenza e musicalità, per una capacità combinatoria unica, che aveva soltanto lui, quella di mescolare tutti gli stili, una sorta di sincretismo poetico.
Ecco che allora Pagano diventa Barocco, Ermetico, Parnassiano, Maudit, Espressionista e Surrealista, sfugge a qualunque classificazione.
“Caro Pagano, – gli scrive la vigilia di Natale Betocchi, – sei un poeta di una maledetta intelligenza e a cavallo di un Petaso che ha un bel altro assillo che il destriero di Bellerofonte! Tra un subisso di pirulette ci mostri la più straordinaria immagine di furor talentino: specie a chi, come me, ricordi – e non possa dimenticare - come immagine di cultura il lirico-macabro e candido funebre barocchismo leccese”.
E’ una piovra fantastica /la campagna leccese – olivi, giallo e terra secca (rosso /un interno l’avversa all’improvviso: /furono verdi o nere due pupille, /ed esili ed ignude mani e braccia, e necessario fu che un volto fosse /il più bello: una gatta? una sirena?
Chi era Vittorio Pagano?
Se avesse potuto, – dice Ennio Bonea – Vittorio avrebbe fatto come Bodini, se ne sarebbe fuggito da Lecce. “Siamo provinciali, l’umanità della trincea, gli incomunicabili, i disamorati …stancamente pensosi d’una scala di seta che consenta l’ascesa di rinnegare presenze, col senso di mirabolanti avventure”.
La scala di seta se la sognò per tutta la vita, ma non riuscì a salire neppure al primo gradino.
Rimase sempre un poeta esilitato in patria, come scrisse Donato Valli, che aggiunge: nella sua poesia, e più nella sua psicologia tormentata e discordante, convivovonola joie de vivre e il pensiero immanente della morte.
Questi insoliti olivi …/Ormai s’è persa una pena del sangue nella loro/devastazione/al sole – che fa cenere e miseria… Non è giusto proteggere la vita /quando nel nulla virano i nocchieri. /Le sirene non cantano, i pensieri si dissanguano lucidi, e l’ordita /trama dei sogni veri /s’attorce in false gòmene di polpi… /La rotta s’è invertita, /capitano, ma tu non ti discolpi.
Mario Marti scrisse che per Pagano occorreva un esame linguistico e stilistico, un esame specialmente metricologico, una bella diagnosi, insomma. Ma Rilke aveva detto che le opere d’arte sono di un’infinita solitudine, niente di peggio che la critica per avvicinarle . “Solo l’amore può afferrarle, tenerle e giudicarle correttamente”.
Rina Durante, che fu una delle poche scrittrici solidali con il poeta leccese, disse che era comunque una vergogna che un grande poeta come lui fosse così trascurato dall’establishment della cultura, dagli insegnanti universitari, dai critici e dalle istituzioni, che hanno completamente dimenticato Vittorio Pagano e i suoi ottomila versi ancora inediti.
Ma chi era Vittorio Pagano?
Come Baudelaire “aveva la coscienza spaventosa ed esaltante della poesia come dell’irrimediabile, come calvario da soffrire perché il male prorompa in fiori”. La poesia era la sua croce e il suo tempio, il suo paradiso e il suo inferno, ma anche l’atto definitivo che rompe il mortale equilibrio:
Oh mortale equilibrio, /misura, tempio rigido /dei suoni e delle cose più impossibili! Nel rombo della terra, /dalle libere forme già pervasa, /divenne ombra e figura tutto ciò che la spada dell’arcangelo /doveva conficcare in cuore all’uomo.
Ma la poesia di Pagano, dice Valli, rappresenta l’anima della sua Lecce, quella città “che una notte sì è spaccata / e distrutto ne fu d’allora il cuore”. E’ sempre la solita storia. Apri una finestra e ti trovi un vaso di gerani sul davanzale e un universo spalancato. “Entrate dove c’è un poeta, – disse Vittorini – e subito vedrete che il problema di un paese non ha più confini precisi, diventa il problema di tutto il mondo“.