Vittorio Sgarbi esalta sul “Giornale” le chiese cittadine. Se sono così belle perché non farne musei?

Creato il 25 febbraio 2013 da Cremonademocratica @paolozignani

Sul sito del Giornale (http://www.ilgiornale.it/news/interni/galleria-889638.html) appare ora un articolo di Vittorio Sgarbi dedicato alla cattedrale, e ad alcuni protagonisti del disegno artistico vi viene realizzato. Sgarbi parla anche di San Sigismondo, di Sant’Agata, esaltando la ricchezza culturale di cremona. E’ tutto molto bello, certo. Siamo molto orgogliosi di queste chiese. Sembrano davvero musei. Per noi il cristianesimo che parla agli uomini di oggi è quello di don Primo Mazzolari. che non ha quasi nulla a che vedere con questo discorso in stile arvediano (quell’aggettivo “misteriosa” ricorda tanto il blog di Fabrizio Loffi “cremona misteriosa”) prettamente riservato alla promozione della città.  

Panorama of Cremona, with the Torrazzo di Cremona visible (Photo credit: Wikipedia)

Quel patrimonio artistico rimasto intatto nei secoli

Cremona è appartata e misteriosa: nelle chiese e nei palazzi ci sono molti capolavori. Che da sempre vengono difesi con coscienza e spirito civico

Vittorio Sgarbi - Lun, 25/02/2013 – 09:24

Cremona è una città appartata e misteriosa. Se ne avverte tutta la compiaciuta grandezza e maestosità nella piazza del Comune sulla quale si affacciano il simbolo della città, il Torrazzo, la cattedrale e il battistero. L’originaria struttura romanica della cattedrale, diversamente dalle chiese di Pavia e Parma, è stata arricchita da un paramento di marmo bianco di Carrara e rosso di Verona mantenendo il ritmo del protiro, delle logge, del rosone con l’adattamento rinascimentale del timpano.

Solo la cattedrale meriterebbe il viaggio a Cremona, per la quantità di sorprese che conserva.

Iniziai, molti anni fa, stimolato da Francesco Arcangeli, a cercare tracce di Wiligelmo nei profeti del portale, parenti stretti nei loro aderenti panneggi e nelle teste gravi dalle fronti basse, dei protagonisti delle lastre del grande scultore del Duomo di Modena. Wiligelmo lavora a Modena tra il 1099 e il 1106. La pietra di fondazione della cattedrale di Cremona, conservata sopra la porta d’ingresso della Sagrestia dei Canonici, indica una sorprendente continuità. Vi si legge la data 26 agosto 1107. Reggono l’iscrizione i due profeti Enoch ed Elia dei quali l’Antico testamento non ricorda la morte. È una chiara allusione al tema dell’eternità, un augurio alla cattedrale: si tratta in ogni caso di testimonianze tra le più alte della prima scultura italiana in Padanìa. Ma non è la sola sorpresa di questa ambiziosa facciata: in un punto più lontano per gli occhi, nella loggia del protiro, ci sono tre sculture sulle quali richiamò la nostra attenzione un altro dimenticato studioso, Giovanni Previtali, ricostruendo il percorso di uno straordinario maestro: Marco Romano. A lui, non inferiore a Nicola e Giovanni Pisano, padri della scultura moderna, si devono il Sant’Imerio, la Vergine Maria e il Sant’Omobono che documentano una concezione aulica e insieme realistica, tra le più originali e notevoli di tutta la scultura del Trecento. La Madonna è regale, ma Sant’Imerio e Sant’Omobono sono uomini veri innalzati a rango di patroni, con i loro pensieri, turbamenti, con il loro corpo pesante, il loro sangue, cittadini cremonesi trasferiti nel marmo di Carrara.

A Cremona, Marco Romano probabilmente arriva intorno al 1296, in seguito all’elezione a vescovo della città del cappellano di Bonifacio VIII, Ranieri degli Aringhieri. Conosce come nessuno la sintesi formale per esprimere sculture con volumi compatti, semplici profili, panneggi ampi e ondulati, e con un sorprendente naturalismo nell’espressione dei volti. Ma questi vertici dell’arte italiana, tra Wiligelmo e Marco Romano, si ripropongono anche per i secoli successivi nelle opere contenute all’interno della cattedrale. Fra tutte domina l’Arca dei Martiri persiani. Ero entrato, nella chiesa poco illuminata, più di trent’anni fa con un appassionato collezionista d’arte, Mario Lanfranchi. Ci attiravano gli affreschi della navata principale, opera di artisti straordinari: Boccaccio Boccaccino, Altobello Melone, Romanino, Pordenone, ma con sorpresa ci imbattemmo in una testimonianza ancora più alta e impreveduta avvolta in un persistente mistero attributivo nonostante i documenti e il riferimento certo al grande architetto e scultore Giovanni Antonio Amadeo. È l’Arca con gli otto rilievi che furono certamente disegnati ed eseguiti da una mano peritissima e capace di sintesi formali degne di un artista astratto o cubista, con allungamenti e stiacciati particolarmente sofisticati, in una evidente consonanza con la scultura ferrarese dello stesso tempo. L’Amadeo, più morbido e meno spericolato, che firma e data 1484 i quattro rilievi della smembrata Arca con San Gerolamo, San Francesco, Noli me tangere, Gesù alla colonna, dovette intervenire per portare a compimento l’opera incompiuta di Antonio Piatti, sperimentatore più estremo e radicale. Sono vertici tra i più assoluti e sconvolgenti dell’arte italiana. Eppure intorno non mancano opere stupefacenti. Tutto. C’è Boccaccio Boccaccino, il primo grande pittore cremonese, con la sua sintassi ordinata, il suo racconto limpido e incantato, in dialogo con Gianfrancesco Bembo; c’è Altobello Melone, irrequieto e turbolento quasi a presagire la tempesta emotiva e narrativa del Romanino. Niente a confronto con la grande parete della controfacciata dipinta dal Pordenone, con una Crocifissione che non teme il confronto con Tiziano, e una Deposizione che compete con Caravaggio. Una tempesta, un temporale nella cattedrale di Cremona che si placheranno soltanto nelle tele di Bernardino Campi, di ricomposta eleganza dopo la brutalità di Pordenone. Bernardino Campi è il pittore prevalente dell’altro grande tempio della città di Cremona: la chiesa di San Sigismondo, uno dei luoghi imperdibili della Padanìa. Con Palazzo Te a Mantova e con gli affreschi del Parmigianino a Fontanellato testimonia la fase più compiuta del Manierismo.

Ci si perde a San Sigismondo come in un giardino incantato. Chiesa e abbazia, chiostri celebrano un cruciale matrimonio che unì i Visconti e gli Sforza: Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti con la benedizione di Bernardo Rossi di San Secondo, vescovo di Cremona. Tutta la scuola del ’500 cremonese, cui guardò con febbrile passione Caravaggio, è attiva a San Sigismondo: Giulio, Antonio, Vincenzo Campi e anche Camillo Boccaccino e soprattutto Bernardino Campi che mostra attenzione per Camillo Boccaccino. Negli affreschi per la Cappella dei Santi Filippo e Giacomo, Bernardino pensa a Raffaello, a Parmigianino, a Boccaccino, con elegantissimo disegno e colori mentali, del tutto estraneo alla deriva naturalistica che porterà Antonio e Vincenzo Campi a specializzarsi in soggetti di genere e a concepire interni con chiaroscuri che prepareranno la strada a Caravaggio. La sua impresa più vertiginosa sarà l’affresco del tiburio di San Sigismondo con la Gloria del Paradiso (1570). Ma Cremona è tante altre misteriose sorprese, nei musei, nei palazzi, nelle chiese.

Imperdibile, anche se pressoché sconosciuta, è la tavola con le storie di Sant’Agata, più o meno dello stesso tempo delle sculture di Marco Romano: un’opera nella quale gli umori, la vitalità, il fuoco del colore identificano una linea dell’arte padana autonoma rispetto alla scuola toscana e alla scuola veneziana, con riferimenti naturalistici di formidabile intuizione come il bambino che illumina il carcere buio con una candela, per consentire a Sant’Agata di vedere San Pietro. E da qui parte un’attenzione alla quotidianità che porterà direttamente a Caravaggio. Con i formidabili anticipi degli interni illuminati alla luce di fiaccole e candele di Antonio e Vincenzo Campi. Pensando a Cremona e alle bellissime visite in luoghi intatti come Palazzo Cavalcabò o a casa Arvedi, sento il patrimonio di quella città singolarmente preservato, difeso, tutelato in una singolare coscienza civica del suo valore.

Penso ancora ad artisti preziosi come Alessandro Pampurino o al caravaggesco, capriccioso e surreale, Luigi Miradori detto il Genovesino di cui ricordo lo spettacolare quadro nella chiesa di Sant’Imerio: un’inverosimile Fuga in Egitto con un galleggiare di angioletti ammalati fra rovine di architetture, volteggianti come coriandoli o dispettosi e distratti; e uno addirittura applicato a dare la biada all’asino in primo piano. Sul fondo l’eco lontana e dolente della strage degli innocenti. Un quadro vertiginoso, onirico, in cui il naturalismo è espediente per accedere a una dimensione sconosciuta, tra intimità e sentimentalismo. Con pazienza la città rivela mondi nascosti garantendoci felicità che hanno il loro equivalente musicale nei suoni puri e per sempre preservati del re dei liutai: Antonio Stradivari, Cremonese.(7. Fine)


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