Vivalascuola. Ma quale scuola?

Creato il 08 novembre 2010 da Fabry2010

A luglio “Qualità e merito“, a ottobre si tagliano i fondi per il merito. E per il 2011 c’è una riduzione del 50% dei fondi per la formazione. E se mancano i professori? Mandiamo le maestre! E’ questa la nuova cultura?

Cominciamo col chiamare le cose col loro nome. Quella in corso è una crisi, non un’emergenza educativa. Una crisi nella, non della, educazione. Perché “nella” e non “della”? Perché la scuola è all’interno di un più vasto sistema educativo, che è attraversato da tempo da profondi mutamenti. E perché è altrettanto importante capire che l’alternativa all’educazione non è l’assenza di educazione, ma una diversa educazione. (Girolamo De Michele, La scuola è di tutti)

Tutto da rifare?

A questo punto dovrebbe essere chiaro. La quadratura del cerchio non si può trovare. Forse il problema è stato insistere nel cercarla. Mettere a sistema, pretendere certezza, programmabilità, prevedibilità da un processo così vago, complesso, imprevedibile come la formazione di individui che crescono, e pretendere oltretutto cha tale esito collimasse con le esigenze economiche, sociali e culturali di una società e del sistema che la società esprimeva era quantomeno pretenzioso. Meglio, distopico.

Ma oggi, dopo decenni di finti dibattiti sulla scuola e veri scontri tra interessi (elettorali, economici, sindacali, culturali…) che la scuola catalizza, ogni proposta di cambiamento (e ogni resistenza al cambiamento), anche se “dalla parte giusta” (democratica e progressista), non può che infognare il dibattito, corrompere lo sguardo e sterilizzare l’immaginazione necessaria a ogni reale processo di cambiamento.

Ogni proposta di riforma, se osservata da lontano, appare inutile, scaduta, stantia. Ogni analisi, ogni interpretazione che si pretende strutturale, “di sistema”, se osservata da vicino, appare utopica, anacronistica. Queste spinte opposte creano, per chi ancora si interroghi sui modi migliori per assecondare la forza liberatrice dell’educazione, un gorgo paralizzante che più che a un maelstrom in mare aperto assomiglia allo scarico limaccioso di una piscina a fine stagione.

Possederemo un metodo per scrollarci di dosso l’oppressione, sosteneva Simone Weil, solo il giorno in cui ne avremo compreso le cause con chiarezza. E per comprenderne le cause è necessario prima di tutto ripulire il nostro sguardo, liberarlo dalle incrostazioni che si sono sedimentate nel tempo, magari a partire dai nostri convincimenti più profondi, dal carattere fantasmatico che li avvolge e per i quali abbiamo combattuto sinora. Fatto questo, proseguiva, bisogna sempre essere pronti, quando necessario, a cambiare fronte, ad abbandonare, come la giustizia, il campo dei vincitori.

La scuola rappresenta una delle nostre vittorie più nitide. La scolarizzazione universale e obbligatoria è un obiettivo, almeno qui da noi e nel cosiddetto occidente democratico, ampiamente raggiunto. È il momento di osservare, senza infingimenti né falsa coscienza, cosa ha lasciato sul campo, quali risultati questa vittoria ha garantito. Cosa tenere e cosa rifiutare. Cosa difendere e a cosa opporsi.

Il banco di prova di un’intelligenza superiore”, scriveva Francis Scott Fitzgerald a proposito di un crollo bensì molto più personale, “è la capacità di sostenere simultaneamente due idee contrapposte senza perdere la capacità di funzionare. Uno dovrebbe, per esempio, capire che non c’è scampo ma essere comunque intenzionato a far di tutto per trovare una via d’uscita.” Intelligenze superiori che in questo momento ci aiutino a comprendere il fallimento del sistema scolastico e soprattutto a fornire spiegazioni in grado di indicare percorribili vie d’uscita, in giro non se ne vedono. Quello che si potrà fare – e che iniziamo a fare a partire da questo numero della rivista – sarà comunque sostenere, a più voci e senza paura di cadere in contraddizione, idee necessariamente contrapposte.

Come ad esempio che questa scuola è morta (come istituzione, come mandato sociale, come rappresentazione collettiva, come struttura, come efficacia) ma che una certa scuola è necessaria (come comunità, come possibilità di incontro fra culture, come trasmissione e creazione di cultura, come spazio pubblico, come critica all’ordine vigente). Che opporsi, in ogni modo, all’attacco della scuola come servizio pubblico è semplicemente doveroso, ma con ciò senza difenderla ciecamente quand’essa si dimostri strumento di alienazione e disumanizzazione. Che se da un lato la scuola rimane probabilmente l’ultimo luogo pubblico in cui sopravvivono piccoli frammenti non mercificati di sapere, dall’altro, a suon di riforme e di piccoli aggiustamenti strutturali, si è trasformata in un assurdo e burocratico insieme di ostacoli che gli insegnanti sono costretti a superare se si ostinano a voler trasmettere ancora un po’ di luce.

Che si può e si deve difenderne il ruolo di servizio pubblico senza con ciò rinunciare a immaginarla radicalmente diversa, in altri luoghi, per un’altra durata, con altri interlocutori. Che ogni idea di riforma non può che procedere in maniera radicale e senza parapetti, ma che ogni radicalità è inutile se non genera un’azione e un cambiamento. Che tentare di “umanizzarla”, mascherandone con ciò i rapporti di potere, non può alla lunga che pervertirne gli ideali, ma non tentare, ogni volta che se ne ha l’occasione, di renderla un posto più decente in cui stare e in cui incontrare sul terreno della cultura, della scienza e dell’arte e in un rapporto di scambio ragazzi e ragazze in formazione, ci rende artefici di un’alienazione non meno degradante.
(Gli asini)

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Una riforma della scuola richiede una riforma del pensiero
di Fernanda Ferraresso

Siamo proprio in mani sicure
L’indicazione iniziale della Riforma della scuola, riguardante i Licei, cita con chiarezza un dovere a cui ci si deve ancorare come criterio costitutivo di tutto ciò che poi viene individuato come programma di obiettivi da raggiungere. Cito:

L’esplicitazione dei nuclei fondanti e dei contenuti imprescindibili.

Intorno ad essi, il legislatore individua il patrimonio culturale condiviso, il fondamento comune del sapere, che la scuola ha il compito di trasmettere alle nuove generazioni, affinché lo possano padroneggiare e reinterpretare alla luce delle sfide sempre nuove lanciate dalla contemporaneità, lasciando nel contempo all’autonomia dei docenti e dei singoli istituti ampi margini di integrazione e, tutta intera, la libertà di poter progettare percorsi scolastici innovativi e di qualità, senza imposizioni di metodi o di ricette didattiche

Ora, davanti a tali propositi ci si dovrebbe sentire in mani sicure, poggiati su conoscenze, requisiti e abilità che dichiarano di volere e di saper dare una nitida valutazione del futuro, capaci di indicare e costruire le vie in cui deporre i passi che, domani,un domani comune, permetta a ciascuno di muoversi, muovere, nel senso di avanzare, secondo direttrici preferenziali.

E questo per il bene comune, per potere a loro volta, le generazioni così preparate, addestrate, farsi educatrici di altre generazioni, come se tutti fossimo un solo individuo collettivo o una comunità reale, non una sommatoria di individui e per giunta narcisisti, egoisti, egotisti, egocentrici, edonisti, spregiudicati arrivisti, brutali imperatori capaci di fare carte false pur di arrivare là dove la propria fame di esibizione di sé, di potere economico, camuffato da ideologico, conduce senza porsi alcuno scrupolo per nessun altro se non se stesso.

L’élite dei saperi e il degrado culturale
L’Italia, più che in ogni altro tempo, sembra tramortita, rimbambita da una crisi economica, scritta a tavolino, risultato di una frode studiata da tempo, non casuale, che ha prodotto ciò che voleva, l’abbattimento dei costi della forza lavoro, con speculazioni abominevoli e manovre spregiudicate che hanno portato ad un abbassamento dei livelli occupazionali che azzerassero le conquiste duramente perseguite e raggiunte in molti anni, per combattere quei mali da cui oggi ci si ritrova, al contrario, nuovamente assediati. La disoccupazione e la mancanza di iniziativa politica, ma non solo, sembrano dipingere con chiarezza la voluta mancanza di coscienza di chi invece dovrebbe farsi carico del cambiamento.

L’élite dei saperi, l’alto grado di tecnologia avrebbe dovuto sconfiggere le piaghe mondiali della sottoccupazione, della povertà, della fame, dell’analfabetismo, dell’emarginazione e invece ha acuito il divario, ampliando le fasce di povertà, di degrado culturale, non solo urbano o edilizio, attraverso nuove fasce di emarginati e puntando il dito su falsi problemi (le migrazioni), cercando di distogliere l’attenzione da coloro i quali sono i veri fautori di queste linee d’azione. Eppure, ciò nonostante, credo che ci sia qualcosa di molto più importante di questa barriera, perché tale è l’inadempienza dei politici e dei gruppi di potere, dei leader e dei manager di ogni settore che analizzi lo stato di fatto attuale e non agisca a favore di chi ha prodotto quella sua ricchezza, delle multinazionali, delle banche che sono ormai legali strumenti di usura, delle istituzioni private che hanno confiscato dei beni pubblici, dell’industria, del sindacato.

Il civis torni a dare peso al proprio ruolo
Credo sia importante la consapevolezza di un proprio ruolo, singolare e importantissimo, svolto da ogni persona, da ogni civis: il ruolo di tutore di ogni individuo pensante. A questo ruolo di responsabile, alla pari di ogni altro, ciascuno deve ritornare a dare peso. Sembra sia stata dimenticata la radice di politica: polis, la gente, la comunità delle persone, i cives, non i consumatori, anche se sono ormai moltissimi i giovani e anche i non più giovani che si ritrovano in strada, letteralmente, per condividere una condizione di annullamento, consumati dal lavoro che li ha prodotti come forza, che li ha usati come consumatori del proprio lavoro e del bene prodotto e ora sono scartati per un assurdo vizio di fabbrica che si chiama: interesse del capitale.

Studio, anzianità di servizio, anni di impiego, esperienze lavorative: tutto a zero. E contemporaneamente una perdita individuale e collettiva dei beni comuni: inquinamento delle acque, dei suoli, dell’aria, non solo del pensiero e del sentire (si veda l’aumento delle nevrosi, delle depressioni, dei mali indotti da questo convulso e dissennato modo di vivere: tutti in corsa verso la morte, da cui cerchiamo di nasconderci nascondendo le tracce del tempo sul volto o sul corpo, rincorrendo falsi idoli estetici che non risolvono assolutamente nulla).

Nel Meridione non sono pochi, maschi e femmine, quelli che scelgono la carriera militare per crearsi un futuro e costruirsi una qualche sicurezza lungo una strada che li conduce spesso in altri paesi in guerra da cui tornano dentro la bara e sotto una miriade di false commemorazioni farcite di retorica e vuote.

E poi ci sono i cervelli che scappano, i cervelli eccellenti, si dice, prodotti da questa scuola, non da quelle tanto decantate di altri Paesi, ma la nostra scuola pubblica, in tutti i suoi livelli fino all’università, cervelli che non trovano qui la possibilità di dare quello per cui hanno studiato, reinvestendo per la comunità il loro sapere in un fare, per progredire. E questo è erigere muri, questo è agire in netto contrasto con una logica rigorosa, non solo il buon senso a cui ci si appella nascondendo la polpa dell’analisi, la sostanza di una guerra continua, che traccia trincee tra questo e quello, dividendo, allontanando, disperdendo. La pace non si costruisce con la guerra, nemmeno con l’uso di mezzi d’assalto usati pacificamente.

L’ignoranza: pestilenza da cui guardarci
E questo genere di scuola è privata dei requisiti per essere scuola. Se una scuola è pubblica non può che accogliere non rifiutare l’accesso e penso ai tanti studenti con difficoltà di ogni genere, non solo fisico o psichico. La scuola privata rifiuta, sceglie per censo, non per abilità e, così facendo, resta uno dei tanti mezzi d’assalto al territorio della libera circolazione delle idee e nasconde interessi di altro genere, non coltiva la pace tra gli individui, tra i popoli. I libri di storia, che a scuola si studiano, mettono in luce proprio questo, gli interessi che sempre hanno mosso ad allearsi o a scontrarsi con gli altri paesi, la fatica della costruzione, le speculazioni.

Nelle aule non si allena a mirare il bersaglio, un qualsiasi bersaglio, ben sapendo che il centro a cui si deve porre sempre attenzione per un cambiamento fattibile è se stessi. Non serve certo attaccare nessuno, non servono armi, il cervello e l’intelligenza, la sensibilità e l’umanità di cui ciascuno è dotato ha detonatori capaci di far spostare le barriere più pesanti.

L’ignoranza è l’unica pestilenza da cui ci si deve guardare, la confusione, la cattiva coscienza d’essere unici o gli unici detentori di un sapere che non ha, a tutt’oggi, risolto nessun problema fondamentale, ma, anzi, ha acutizzato la separazione tra luogo e abitanti del luogo, innescando una guerra che forse è molto peggio di quella che comunemente chiamiamo con questo appellativo. Gandhi (Antiche come le Montagne, ed. di Comunità, Milano 1981) scriveva:

Una cosa è certa. Se la folle corsa agli armamenti continua, dovrà necessariamente concludersi in un massacro quale non si è mai visto nella storia. Se ci sarà un vincitore, la vittoria vera sarà una morte vivente per la nazione che riuscirà vittoriosa. Non c’è scampo allora alla rovina incombente se non attraverso la coraggiosa e incondizionata accettazione del metodo non violento con tutte le sue mirabili implicazioni. Se non vi fosse cupidigia, non vi sarebbe motivo di armamenti. Il principio della non violenza richiede la completa astensione da qualsiasi forma di sfruttamento. Non appena scomparirà lo spirito di sfruttamento, gli armamenti saranno sentiti come un effettivo insopportabile peso. Non si può giungere a un vero disarmo se le nazioni del mondo non cessano di sfruttarsi a vicenda.

La corsa che non è mai cessata, ma anzi si è ripetuta e organizzata, passando il testimone a troppe figure, compresa la scuola, una scuola che si dice elitaria mentre, così facendo, esprime solo la sua fondamentale lacuna, quella cioè di non poter essere davvero scuola, nel senso vero e completo del termine.

Una scuola elitaria non è scuola

Una cultura e una scuola che si definisce elitaria non può essere ciò che assicura di essere. Essa coltiva esattamente il principio contrario per cui una istituzione si definisce capace di produrre cultura, scuola, risultando settaria, ridotta, e alla fine ridicola perché parziale, senza essere capace di assicurare il principio fondante che quella libertà intende ed è il terreno dell’incontro dei saperi, saperi liberi da qualunque preclusione di settore, da qualunque ideologia che voglia dominarli, usarli, dirigerli.

Scuola, dal latino schola, deriva a sua volta dal greco antico σχολεῖον (scholeion), da σχολή (scholḗ) che inizialmente significava “tempo libero, poi evolutosi in un termine che descriveva il “luogo in cui veniva speso il tempo libero“, cioè il luogo in cui si tenevano discussioni filosofiche o scientifiche durante il tempo libero, per poi descrivere il “luogo di lettura“, fino a descrivere il luogo d’istruzione per eccellenza. La scuola è il tempo e il luogo liberi, liberati da ogni giogo, da ogni potere, luogo che indaga senza porsi come obiettivo altre speculazioni che il sapere, la conoscenza. Va da sé che la conoscenza principale è quella di sé, non demandando a nessuno il compito di indagare in ogni direzione e collaborando l’un l’altro perché questo accada, poiché anche il luogo è il sé.

Oggi, invece, ci si è nascosti così bene, o meglio si crede di essersi nascosti bene dietro le barricate dell’economia, della politica, di una leadership in cui il primato economico vuole superare ogni altra eco-nomia fondamentale. Il luogo che ci ospita, sia esso il pianeta o il cosmo, il corpo che abitiamo, sia esso un corpo fisico o mentale, le tante abilità del luogo (riprodursi, specializzarsi, produrre gas vitali, acqua, sali, energia indispensabile e tutto a costo zero) che noi, con le nostre economie abbiamo depauperato e distrutto orrendamente, questo dovrebbe essere fondamentale obiettivo da osservare, studiare, rispettare, organizzare.

La cultura non è un bene passeggero
In realtà non mancano gli ideali, ma è di capitale importanza che si veda bene quali sono, perché li ha mostrati, i suoi ideali, un capitale che è luogo del vuoto, corpo che si con-figura sulla morte di tanti miliardi di esseri a vantaggio di pochi gruppi elitari, incapaci di risolvere alcun problema fondante.

Tutto si è trasformato in una orrida guerra in ogni quartiere della terra, all’interno di ogni persona, distruggendo la polpa che tutti ci rendeva comunicanti, in comunicazione tra noi e il luogo. La parola che usiamo è una parola morta, parla di morti, produce cadaveri. La scuola lo sa, tutti gli in-segnanti lo sanno, lo sentono chiaro perché anche loro sono stati a loro volta in-segnati, ed è quello che portano a tutti gli altri, la consapevolezza di quei segni.

La cultura non è un bene passeggero e la sua divulgazione, la condivisione dei percorsi, che ogni disciplina e l’arte, disciplina anch’essa, studiano e offrono attraverso le loro tante indagini e le loro molteplici lingue, sono una risorsa irrinunciabile, non tanto per restare ancorati al passato e ad una tradizione sterile, ma per produrre una profonda consapevolezza delle proprie origini, facendosi promotori di un volano di ripresa che tenga conto della contemporaneità ma non dimentichi che altri, ancora altri pro-seguiranno il percorso in futuro. Tenendo conto che il profitto maggiore è una condivisione delle risorse e della produzione, non una preclusione degli stessi, non ci sarebbe un nuovo stallo di crisi come quello attuale.

La distribuzione della cultura facilita i rapporti tra uomini e stati, la consapevolezza delle proprie capacità e delle proprie memorie rende gli uomini una sola comunità, capace di evolversi senza sosta e non trasforma ogni uomo in quel deserto, dei Tartari, di cui si ancora si legge a scuola, risultando in-calzante comune problema.

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Materiali

Riformare il pensiero per un’educazione planetaria
da Edgar Morin

Prendiamo l’esempio dell’educazione: solo gli spiriti già riformati possono comporre una riforma istituzionale che, in se stessa, permetterà di formare sempre più degli spiriti riformati; e se non ci sono, in partenza, questi spiriti riformati, tutte le riforme falliranno. Ed è per questo che non credo assolutamente più alle riforme globali decise da questo o da quel ministro, semplicemente perché le persone incaricate di applicarle ne saranno spesso incapaci. In qualità di adepto del pensiero complesso, so che non basta brandire la parola “complessità” per riformare gli spiriti. Degli adepti poco formati, e inconsapevoli della complessità che racchiude la parola “complessità”, possono fare tanto o più sciocchezze che gli altri. La riforma può essere dunque solo profonda.

Lavorare pensando in modo corretto, è il principio della morale (Pascal). Questo non significa che sia sufficiente pensare correttamente per essere morale. No. Ancor bisogna avere un pensiero “corretto”, un pensiero cosciente degli effetti perversi di certe buone intenzioni. Ogni azione deve essere apprezzata tenendo conto della sua “ecologia”, cioè dell’insieme delle trasformazioni e delle deviazioni che conoscerà nei mezzi – storico, sociale, culturale… – in seno a cui si produrrà, mezzi che inevitabilmente avranno su di lei degli effetti negativi e contrari a quelli inizialmente ricercati. La presa in conto dell’ecologia dell’azione ci conduce ad una vigilanza senza la quale ci condanneremmo alla cecità. (…) la conoscenza pertinente non può gestirsi in modo da stanare le trappole della conoscenza: l’errore e l’illusione, presenti in modo permanente, poiché sono la risultante delle nostre percezioni, del nostro egocentrismo che confonde i nostri ricordi e il nostro modo di vedere le cose, e della menzogna in se stessa (…) è ancora più importante insegnare dalla più tenera età a conoscersi al fine di stanarli al più presto.

Oggigiorno, la coscienza non è più solamente famigliare, nazionale, culturale, è planetaria. Ed è questa coscienza planetaria che è fondamentale sviluppare. Torniamo qui all’idea della necessità di una conoscenza pertinente , cioè che permetta di includere il contesto e il globale, e non quella che regna nei nostri spiriti plasmati dal sistema di educazione attuale che, in generale, fa ben poco a caso a queste due dimensioni. Dobbiamo risituarci nel cosmo, del quale si sa che va verso la dispersione e la morte, e che ci indica la nostra piccola posizione marginale e periferica; le nostre conoscenze in questo campo rinforzano questa idea che il nostro habitat è la terra.

L’educazione deve collaborare all’abbandono della concezione del progresso come una certezza storica per farne una possibilità incerta e deve comprendere che nessuno sviluppo si acquisisce per sempre poiché, come tutto ciò che è vivente e umano, è sottoposto al principio di degrado e deve rigenerarsi in continuazione. (…) Più libertà e più comunità, più ego e meno egoismo.

Il sottosviluppo degli sviluppati è un sottosviluppo morale, psichico e intellettuale. Esiste senza dubbio una penuria affettiva e psichica più o meno grande in tutte le civiltà, e ovunque ci sono gravi sotto-sviluppi dello spirito umano, ma bisogna vedere la miseria morale delle società ricche, la mancanza d’amore delle società ipernutrite, la malvagità e l’aggressività miserabile degli intellettuali e degli universitari, la proliferazione di idee generali vuote e di concetti deformati, la perdita della globalità, la perdita del fondamentale e la perdita della responsabilità.

L’educazione deve rafforzare il rispetto delle culture e comprendere che sono imperfette in se stesse, a immagine dell’essere umano. Tutte le culture, come la nostra, costituiscono una mescolanza di superstizioni, di finzioni, di fissazioni, di saperi accumulati e non criticati, di errori grossolani, di verità profonde…

Volere un mondo migliore, che è la nostra principale aspirazione, non significa volere il migliore dei mondi. Per contro, rinunciare al migliore dei mondi non significa rinunciare a un mondo migliore. (…) A tale scopo, l’educazione dovrà rafforzare i comportamenti e le capacità che permetteranno di superare gli ostacoli prodotti dalle strutture burocratiche e l’istituzionalizzazione di politiche unidimensionali. La partecipazione e la costruzione delle reti associative supereranno il modello hegeliano maschile, adulto, tecnico, occidentale, rivelando e risvegliando i fermenti civilazzatori femminili, giovanili, senili, multietnici e multiculturali del patrimonio umano.

Un’educazione che mirasse a una concezione complessa della realtà e facesse su questa una riflessione complessa collaborerebbe anch’essa con gli sforzi che hanno per obiettivo quello di attenuare la crudeltà del mondo.

Testi tratti da:
Edgar Morin, Emilio-Roger Ciurana, Raul Domingo Motta, Educare per l’era planetaria, Armando Editore 2004

Edgar Morin, Educare gli educatori, Una riforma del pensiero per la Democrazia cognitiva, a cura di Antonella Martini, Edup 2008

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L’occhio del Lupo
L’immagine del crollo a Pompei, si sarebbe detto una volta, è emblematica.

Una volta. Ora non più, ché il crollo a forza di ripetersi non è più emblema né tantomeno metafora delle rovine in corso ma paesaggio globale dalle Alpi agli Appennini. Le magie di Tremonti riescono tutte, che i prestanome siano Bondi o Gelmini, la macchina iperbolica dello sfascio non ne sbaglia una: nella mia scuola i secchi di plastica sono sparsi per i corridoi come immagini surrealiste, incongrue (Tremonti odia i libri ma conosce a memoria la lezione dell’Ubu Roi), ché il soffitto è un lusso di cui il Tesoro non si può occupare. Si spera che piova poco. Con i banchi ci stiamo arrangiando, i ragazzi stanno a due a due, e fra l’altro si scaldano a vicenda (a volte troppo). Poco lontano da dove scrivo, Roma caput mundi, i banchi sono firmati da uno sponsor, “Lo zio d’America”, che è un bel bar, bisogna ammetterlo… Quando lo sfascio di Pompei sarà completato, ne faranno una copia a conduzione privata, pubblicità a cura della Santanché, un altro prodigio dei tempi. Si farà pagare con l’eleganza che la contraddistingue, appiccicando una sua foto sull’affresco di un postribolo.
(michele lupo)

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La settimana scolastica
di Francesco Accattoli

Si continua all’insegna di una sola parola d’ordine: tagliare. Nelle ultime due settimane, a cavallo con il ponte di Ognissanti, numerosi sono stati i segnali da parte del Governo che puntano ad alleggerire ancora di più il monte spesa dell’istruzione pubblica.

“E’ l’immagine dell’italiano nel mondo – titola Repubblica.it – ma il Governo taglia la Dante Alighieri”. La prestigiosa Società Dante Alighieri, istituzione che promuove la cultura e la lingua italiana in tutto il mondo e che vanta più di un secolo di attività, s’è vista tagliare il suo budget del 53%, ottenendo per il 2011 un monte spesa di appena 600 mila euro. E’ inutile dire che le altre società di promozione della cultura e della lingua europee – Istituto Cervantes, British Council, Goethe Institut – godono di maggior salute nonostante i tempi magri. Ciò che appare in controtendenza, continua la Repubblica, è che negli ultimi anni ci sia stata una crescita esponenziale delle richieste di corsi di lingua italiana, soprattutto negli Stati Uniti.

Tagli anche per il fondo per i libri, iniziativa istituita nel 1967 che rendeva gratuiti i libri per gli alunni delle elementari. Il Ministro Tremonti infatti ha ridotto a zero il capitolo di spesa che riguarda lo stanziamento delle risorse finanziarie per garantire l’istruzione ai bambini delle elementari. La versione on line de Il Fatto Quotidiano riferisce in maniera dettagliata cifre e strategie del processo di decurtazione delle risorse per la scuola: non solo il fondo libri, ma anche il capitolo di spesa riguardante il diritto allo studio.

Dei tagli alle borse di studio per gli universitari se n’è occupata anche Repubblica.it in un articolo di Salvo Intravaia e Corrado Zunnino. Si parla di un taglio del 90% delle risorse per le borse di studio universitarie,“un’altra morte per mancanza di fondi” viene definita, per un istituto che dal 1946 ha accompagnato la crescita democratica del Paese: dai 246 milioni di euro si è passati a 25,7, che nel 2012 scenderà ulteriormente a quota 13 milioni.

E recuperiamo la notizia di un taglio approvato il 20 ottobre e di cui si è parlato pochissimo: sono stati tagliati il 60 per cento dei corsi serali statali, in attuazione della famigerata legge 133 che taglia i famosi 8 miliardi alla scuola italiana.

D’altro canto, riferisce Retescuole.net, il bilancio del Ministero di via Trastevere non ha subito mai nel passato un così grande ridimensionamento:

“per il 2011 la competenza scende a 52.492,8 milioni di euro con una riduzione di 2.826,2 milioni rispetto alla competenza del bilancio assestato 2010. Di questa riduzione, 2.106,1 milioni riguardano la Missione dell’Istruzione. La percentuale sulla spesa dello Stato passa dal 10,3 del 2010 al 9,9 del 2011”.

A questo punto non serve attendere il rapporto OCSE del 2013 per rendersi conto dello stato di arretratezza della spesa pubblica per l’istruzione in Italia.

Come far fronte ad una prospettiva di mancanza di risorse a sostegno del diritto allo studio? Stando alle parole di Ilvio Diamanti su Repubblica.it, l’Italia si aggrappa ancora alla famiglia, percepita ancora come l’ammortizzatore sociale più affidabile. La fiducia nella capacità del nucleo familiare di far fronte a disoccupazione e alla mancanza di sostegni economici da parte dello Stato coinvolge il 90% degli italiani, ed allo stesso tempo il 40% dei giovani si aggrappa ancora alla tutela di genitori e parenti.

Docenti meritevoli, docenti gran lavoratori. Il ministro Gelmini dichiara in un intervista rilasciata a IlMattino.it di voler cambiare il sistema di attribuzione degli scatti nella retribuzione dei docenti, in occasione del rinnovo del CN del 2012. Via il sistema legato all’anzianità di servizio, dentro quello legato al merito:

“Nel 2012, con il rinnovo del contratto nazionale, vogliamo finalmente superare il meccanismo obsoleto degli scatti di anzianità, che non ci consente di distinguere fra professori bravi e quelli meno bravi. Vogliamo, invece, introdurre un sistema che premi il merito. Bisognerà naturalmente mettere a punto contestualmente anche un sistema in grado di misurare la qualità dell’insegnamento. Ma ci sono già strutture come l’Invalsi che potrebbero essere utilizzate per raggiungere questo obiettivo”.

Ma come verrà calcolato il merito? Sempre stando alle parole del ministro, la valutazione delle competenze e dell’efficienze del corpo docenti sarà possibile grazie al potenziamento dell’Invalsi, dell’Ansas, l’agenzia che si occupa di formazione degli insegnanti, e dell’ispettorato.

In questa prospettiva appare grottesca la questione della diaria per i prof accompagnatori nelle gite scolastiche, ma è nello stesso tempo un segno degli effetti della protesta degli insegnanti. E’ il Corriere della Sera a rivelare lo strano caso dell’agenzia di viaggi che s’è offerta di pagare ottanta euro al giorno agli insegnanti incaricati di seguire in gita i propri alunni: da settembre, infatti, il Governo ha eliminato la diaria dei docenti che accompagnano le classi all’estero.

Tra scetticismo – i presidi affermano che questa non sono spese che spettano ad un privato – e comprensibili imbarazzi dei docenti, l’iniziativa per il momento non sembra riscuotere un gran sostegno, soprattutto in un momento come questo in cui molti istituti hanno deciso di cancellare le gite per l’anno scolastico in corso in segno di protesta contro la Riforma Gelmini.

Proteste che continuano senza sosta in tutta Italia ed in maniera trasversale: il 28 ottobre sono scesi di nuovo in piazza gli studenti delle scuole superiori di dieci città, con Napoli a fare da scenario alla manifestazione indetta dai comitati dei precari della scuola. Le iniziative contro la Riforma sono continuate lunedì 3 novembre e proseguiranno mercoledì 17 novembre, per la quale data gli studenti hanno indetto un No Gelmini day. Intanto il 4 novembre gli studenti hanno protestato contro il progetto di educazione militare e per il programma: + soldi alla scuola – alla guerra.

Fronte università, al via l’iniziativa degli Atenei per ovviare ai tagli: cercansi docenti a contratto, retribuzione simbolica 1 euro. E’ questo il senso della scelta dei rettori e dei presidi di facoltà per far fronte alla inevitabile chiusura di molti corsi per via delle scelte del Governo:

è l’unico modo per mantenere aperti quei corsi che non esistono più – ribadisce Aldo Maria Morace, preside della facoltà di Lettere all’Università di Sassari – ma che centinaia di studenti vorrebbero seguire perché previsti dai loro piani di studio o per ovviare all’assenza di ricercatori, che ora hanno sospeso le lezioni. Questo perché, a causa dei tagli, qui in Sardegna come altrove, non siamo più in grado di pagare le supplenze”.

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Segnalazioni
Un libro, una rivista.

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Tutti i materiali sulla “riforma” delle Superiori qui.

Per chi se lo fosse perso: Presa diretta, La scuola fallitaqui.

Guide alla scuola della Gelmini qui.

Le circolari e i decreti ministeriali sugli organici qui.

Una sintesi dei provvedimenti del Governo sulla scuola qui.

Un manuale di resistenza alla scuola della Gelmini qui.

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Dove trovare il Coordinamento Precari Scuola: qui; Movimento Scuola Precaria qui.

Il sito del Coordinamento Nazionale Docenti di Laboratorio qui.

Cosa fanno gli insegnanti: vedi i siti di ReteScuole, Cgil, Cobas, Cub.

Spazi in rete sulla scuola qui.

(Vivalascuola è curata da Francesco Accattoli, Alessandro Cartoni, Michele Lupo, Giorgio Morale, Roberto Plevano, Lucia Tosi)



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