Il cinema di Tsai si conferma, già dagli esordi, esperienza stratificata, di complessa assimilazione; ancora una volta sembra essere la solitudine il centro dell’attenzione, e di riflesso tutte le sofferenti derive che questa condizione comporta: aspirazioni suicide, sessualità repressa, incapacità di amare. L’essere soli è il triste attributo che i tre protagonisti condividono nella loro precaria esistenza. Ma invece di sbandierare queste situazioni, Tsai le insabbia, come se le nascondesse nella banalità della vita che si consuma passo dopo passo, ora dopo ora, e allora il lavoro di estrazione che lo spettatore deve compiere è notevole, sfiancante per il livello di attenzione richiesto.
Il tragic(omic)o triangolo amoroso che vede per protagonisti una sensuale agente immobiliare, un furbastro venditore ambulante ed un timido commerciante di loculi ruota intorno ad un oggetto inanimato: il materasso. Tsai riprenderà in Che ora è laggiù? (2001) la centralità di un oggetto come fulcro narrativo, qui il letto spoglio, senza coperte, diviene nel giro di poco tempo il luogo per eccellenza dove riappacificarsi con se stessi. A turno ognuno dei tre personaggi si sdraierà sopra di esso accarezzandone la ruvida superficie. Questo per ricordare l’amplesso muto, carnale, ansimante, vissuto in prima persona dalla donna e lo spaccone, spiati dall’introverso venditore di tombe. Ma il pessimismo di Tsai si manifesta – sempre e comunque in maniera indiretta poco percettibile – quando la coppia fa l’amore per la seconda volta, e sotto il materasso, divenuto ora barriera invalicabile, il ragazzo inizia a masturbarsi.
Se il braccio teso di The Hole (1998) lasciava un barlume di speranza nell’alienata location condominiale, in Vive l’amour non c’è il benché minimo appiglio di salvezza. Perché sebbene il ragazzo riesca a sdraiarsi affianco al venditore ambulante sul materasso, e quindi a ridurre la distanza con il genere umano, il suo bacio sembrerebbe un gesto disperato, nervoso, più vicino al recidersi le vene dei polsi che ad un atto d’amore, e difatti i fotogrammi successivi mostrano di come il venditore non si accorga di niente continuando a dormire e il giovane esca lentamente dall’inquadratura per scomparire definitivamente.
Ma la visione di Tsai si fa impietosa nel finale. Il dramma che fino a quel momento era stato trattenuto in una camera da letto, esplode nella realtà metropolitana tramite la catarsi di un pianto che dura più di cinque interminabili minuti. Acqua (marchio di fabbrica del regista di Taiwan) che scorre sulle guance della donna, tra i singhiozzi del suo vivere che non cambierà dopo un rapporto occasionale con uno sconosciuto, né cambierà qualcosa per quest’ultimo, menchemeno per chi li ha spiati, desiderati, bramati, per tutto il tempo. Resteranno tutti e tre comunque soli.
Leone d’Oro a Venezia ’94, con Vive l’Amour Ming-liang comincia il suo viaggio negli interrogativi dell’uomo moderno. Nonostante sia noioso, criptico, immobile e lento, vive Tsai!
Abbiamo bisogno anche di lui.