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Vivere cent’anni dopo. Ovvero: il mio primo Salgari

Creato il 17 marzo 2015 da Scribacchina

Negli ultimi mesi ho riscoperto una certa passione per le letture facili.
Quelle che ti lasciano la testa leggera.
Quelle che magari non ti danno grandi insegnamenti, ma hanno il pregio non indifferente di emozionarti, di farti sorridere. E’ una sensazione particolare; non saprei come meglio definirla se non con la parola «freschezza».

Dumas. Dopo i Tre Moschettieri e il bellissimo viaggio nella Parigi del 1600, ero indecisa se persistere e magari leggere Il Conte di Montecristo. Mentre la domanda aleggiava nella mia zuccona, l’occhio è caduto su un cartello stradale (sì, ero per strada e stavo camminando).
Leggo: via Emilio Salgari.
Un dubbio mi folgora: Salgari… come diavolo si pronuncia? Sàlgari o Salgàri (giacché Salgarì non mi pare proprio il caso)?
Già lo dissi, lo ridico per l’ennesima volta: la curiosità è donna, e Scribacchina lo è. Curiosa e donna.
Lesta, estraggo il fido iPhone dalla tasca e verifico col santissimo signor Wikipedia: Salgàri, con l’accento sulla seconda A (ricordatevelo, la prossima volta che parlerete di Salgari).
Poi, sapete, da cosa nasce cosa. Dunque, da un dubbio sull’accento nascono i dubbi sulla vita dell’elemento: obbligatorio leggere seduta stante la biografia.
Apprendo così che il Salgari è originario di Verona: ottimo, mi sta già simpatico.
Leggo che è il padre di Sandokan: mi viene in mente la mia infanzia a base di Kabir Bedi, tigri della Malesia in salsa mista e… sì, mi viene in mente anche la famosissima serie tv, della cui colonna sonora – ahimé – ricordo perfettamente la alternate take.
Altri tempi.

Tutto questo a parte, salto allegramente interi pezzi di biografia e passo alla produzione letteraria; scopro così che il buon Salgari ha scritto anche un curioso romanzo dal titolo «Le meraviglie del Duemila», protagonisti due personaggi che dal 1903 si ritrovano catapultati nel 2003.
La curiosità aumenta a dismisura: rimetto l’iPhone in tasca, sbrigo le mie bisogne e una volta a casa recupero per vie illecite (leggi: Vuze) una copia elettronica del romanzo.

Le_meraviglie_del_duemila

I protagonisti sono due tizi: Brandok, un giovane abbiente sui 25 anni «malato» di spleen (un termine di moda agli inizi del 900 che stava ad indicare una malinconica apatia – o una forma di depressione, fate vobis), e Toby, medico cinquantenne che scopre un sistema per interrompere le funzioni vitali di un essere vivente e riattivarle a piacimento anche dopo diverso tempo. Ci prova su alcuni conigli, che restano come «congelati» per quattordici anni e riprendono a vivere come se nulla fosse successo, come se il tempo non fosse trascorso. Se la cosa funziona sui conigli, quindi, perché non provarla anche sugli umani?
Brandok, annoiato dalla sua vita di riccone, non ha nulla da perdere; Toby è uno scienziato che non vede l’ora di sperimentare su di sé le proprie scoperte. I due, dunque, tentano l’impresa: grazie all’estratto di una straordinaria pianta tropicale, si addormentano lasciando ai posteri tutte le istruzioni utili per risvegliarli esattamente nel 2003, cent’anni dopo.

Com’è il mondo che Salgari immaginava per Brandok e Toby, nel 2003? Fondamentalmente è un mondo frenetico, dove tutti corrono e dove anche il semplice gesto del cucinare viene considerato inutile: tanto, le case sono collegate col ristorante tramite un sistema di treni in miniatura, completo di binari e vagoncini per trasportare il cibo direttamente dalle cucine degli chef alle case dei clienti.
Per spostarsi ci sono degli apparecchi volanti che sembrano più autovetture che non aerei o elicotteri (ricordo che, quando è stato scritto questo romanzo, l’uomo stava ancora facendo i primissimi tentativi di volo aereo). Ci sono anche treni sottomarini che viaggiano a velocità impensabili – impensabili per l’epoca, non per noi moderni globetrotter.
Non esiste più la guerra: è stata abolita; i malviventi vengono confinati in paesi sperduti o in città sotterranee dalle quali non possono fuggire.
L’uomo non ha ancora inaugurato i viaggi spaziali, ma è già in contatto radio con gli abitanti degli altri mondi: per farvi capire, con gli abitanti di Marte, i Martiani (sì, scritto proprio così: Martiani), c’è un bello scambio culturale. E c’è anche la promessa di conoscersi di persona, un giorno.
C’è, ed è stata una simpatica sorpresa, la previsione di come sarebbe stata la televisione e l’informazione via web.
C’è poi il terrore dell’elettricità, la paura che questa costante corrente nella quale si è immersi sia pericolosa per la salute – non per niente, i due protagonisti verranno internati in una casa di cura perché il loro fisico non è in grado di reggere l’enorme quantità di corrente elettrica che c’è nel nuovo millennio. Questa paura dell’elettricità mi ricorda un po’ il timore (attualissimo) per i cellulari e le onde elettromagnetiche.

Discorso a parte merita la figura della donna: in questo romanzo si parla poco o nulla di donne, sembra quasi non esistano (salvo le compagne dei detenuti nelle colonie penali: figure inesistenti, inconsistenti, per le quali non è stata spesa una parola). Questa poca attenzione dal vago sapore maschilista, unita al costante stupore dei protagonisti – a volte davvero noioso – e ad un paio di refusi di un certo peso, ha un po’ penalizzato ai miei occhi questo volumetto. Insomma, l’ho letto malvolentieri; e, una volta finito, ho avvertito un grato senso di liberazione.

***

Mi erano però rimaste alcune curiosità, alcuni dubbi; così, ho ripreso la biografia di Salgari dove l’avevo interrotta.
E mi si è stretto il cuore.
Anzi, mi si è spezzato.

A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna.

Emilio era un uomo costretto a ritmi forsennati per riuscire a far fronte agli impegni contrattuali. Guadagnava pochissimo, aveva una moglie molto malata e dei figli da mantenere.
Si è suicidato dalla disperazione.

La professione dello scrittore dovrebbe essere piena di soddisfazioni morali e materiali. Io invece sono inchiodato al mio tavolo per molte ore al giorno ed alcune delle notte, e quando riposo sono in biblioteca per documentarmi. Debbo scrivere a tutto vapore cartelle su cartelle, e subito spedire agli editori, senza aver avuto il tempo di rileggere e correggere.

I refusi, perdiana, quei refusi che mi avevano rubato un sorriso sprezzante… mi sono sentita l’ultima degli ultimi. Mi sono vergognata profondamente di me stessa.

***

Ciao, Emilio.
Perdona questa cialtrona superficiale.
Perdona questa Scribacchina da quattro soldi.


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