L’essenziale non è invisibile agli occhi, non sempre. A volte indossa il mantello della realtà e si mostra. Magari senza dire nulla, ma comunicandoci tutto. Come ha fatto nell’Indiana col piccolo Walter Joshua Fretz, di 19 settimane e 3 giorni, nato e sopravvissuto una manciata minuti. Appena il tempo di respirare, di tremare, di farsi stringere da mamma e papà, lasciando la famiglia e chiunque veda le sue fotografie immersi in uno stupore pieno di domande. Perché la vita di questo angelo di passaggio – inutile nasconderlo – a prima vista appare priva di significato. Che senso può infatti avere, per una donna, mettere al mondo una creatura già pronta per il Cielo, e per altri assistere a questo insolito prodigio? La parte razionale, o meglio razionalista di ciascuno di noi, scuote il capo: nessuno. Nessun senso: Walter Joshua non è stato che un inciampo della natura o, per chi ci crede, di Dio.
Questa è la prima risposta che siamo portati a darci, ma non basta. La forza delle immagini infatti non si placa e ci spinge a tornare a fissare quelle dita, minute e tenerissime. La domanda così riemerge: che senso hanno pochi minuti di vita? Minimizzare non serve, un senso ci deve essere; anzi c’è. Perché se ogni figlio è un dono, è impossibile non vi sia una ragione per cui quel batuffolo d’amore è passato a trovarci. Non per nulla, mentre ci interroghiamo, c’è chi ha già una risposta ed è Lexi Fretz, la madre del piccolo, la quale non ha dubbi: accogliere quel figlio, anche se purtroppo per poco, è stato un privilegio. «L’ho preso, l’ho abbracciato – racconta – mentre il suo cuoricino batteva. L’ho tenuto vicino al cuore, ho contato le dita di mani e piedi e l’ho baciato sulla piccola fronte».
In più pare che l’intero popolo del web, nel vedere le foto di quel bimbo così fragile – fragile da vivere il tempo di un abbraccio – si stia commovendo. Il che dimostra che non è affatto vero che la breve esistenza di Walter Joshua, consumatasi in meno di 20 settimane, sia stata inutile: qualcosa, di lui, è rimasto. Anzi, è rimasto molto, forse tutto se si pensa che la vita di ognuno, in realtà, affonda le radici nella dipendenza dal prossimo: nasciamo deboli e, se abbiamo la fortuna di vivere a lungo, deboli moriamo. Non la forza ma l’amore è quindi il filo cui siamo appesi, la mano che, giorno dopo giorno, ci sorregge. Ed è proprio di amore che la breve avventura di questo bambino americano in definitiva ci parla; dell’amore che rende prezioso ogni minuto, ogni istante di quel che ci è concesso di vivere.
Anche se, come nel caso di Walter Joshua, tutto dovesse esaurirsi in pochissimo. Sbaglieremmo se infatti affidassimo aprioristicamente il valore dell’esistenza alle clessidre – chi vive di più, vive meglio -, ai conti correnti - chi più ha, meglio sta – o a qualche altra bilancia: l’essenziale sfugge alla misura, pur essendo misura di tutto. Questo spiega perché il mistero più grande s’annida anche in pochi minuti di vita, anzi soprattutto in quelli. Quando di vitale sembra non esservi nulla, eccetto il respiro; eccetto un cuore piccolissimo che pure batte; eccetto dita sottili come aghi ma comunque decise ad aggrapparsi, a tentare, anche se solo per una volta, a stringere un po’ di quella vita che altri hanno in abbondanza senza riuscire ad apprezzarla. No, l’essenziale non è invisibile agli occhi: è invisibile ai distratti.