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VIVIAN | Sulle tracce di Vivian Maier, fotografa e bambinaia

Creato il 23 dicembre 2015 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

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Sulle tracce di Vivian Maier, fotografa e bambinaia

di Massimiliano Sardina

Se conosciamo Vivian Maier lo dobbiamo all’intuito e all’intraprendenza del giovane John Maloof che nel 2007, mentre era alla ricerca di vecchie immagini della Chicago anni Cinquanta, si è imbattuto per puro caso in una curiosa scatola piena di rullini; per due anni la scatola (acquistata in una casa d’aste per una cifra irrisoria) rimane chiusa in un armadio, fino a che Maloof per curiosità non sviluppa il primo rullino. Dopo aver visionato alcune immagini Maloof capisce subito l’eccezionalità della sua scoperta, e decide di pubblicarle un po’ per volta su internet, dove non tardano a catalizzare l’attenzione di critici e intenditori. Seguono mesi di difficili ricerche per risalire all’identità della fantomatica Vivian Maier, questo era il nome che figurava sulla scatola, e quale non fu lo stupore di Maloof nel constatare che si trattava nientemeno che di una bambinaia (un valore aggiunto, intendiamoci, non una nota di demerito). Piano piano, a forza di accumulare informazioni, il ritratto di Vivian Maier comincia a farsi sempre più nitido. Contattando le famiglie presso cui Vivian aveva prestato servizio, Maloof ha poi modo di ricostruire, incastrando a fatica certi tasselli, i tratti di una personalità insieme sfuggente e pregnante, ritrosa ma imponente.

Ciliegina sulla torta è la scoperta del grande magazzino dove Maier ha depositato migliaia di rullini mai sviluppati. Vivian era una “pack-rat”, un’accumulatrice compulsiva che impilava giornali fino a minare la stabilità del pavimento della sua camera; spaventati dall’aggravarsi delle sue stranezze le famiglie, specie negli ultimi anni, la mettevano alla porta. Anche la sua passione, tutt’altro che hobbystica, non sfuggì alla pratica rituale dell’accumulo. Metodica, abitudinaria, quasi manieristica nella sua personalissima cifra stilistica, in tutti gli anni della sua attività fotografica si mantenne ligia a una prassi consolidata; la Rolleiflex era il filtro ideale per i suoi prelievi dalla realtà (una realtà pedinata nelle periferie come nelle arterie più centrali), con il visore per l’inquadratura posto nella parte superiore della macchina, e con l’impugnatura all’altezza della pancia: una macchina fotografica ideale per chi, come lei, desiderava non dare nell’occhio e rimanere invisibile. Per tutta la vita si limitò a scattare, a inquadrare porzioni di spazio vissuto, spesso tralasciando anche la fase della stampa (presumibilmente per motivi economici). A tutt’oggi meno del 20% dei negativi del grande archivio Maier è stato sviluppato e mostrato al grande pubblico, ma quel poco che è venuto alla luce è bastato a farla annoverare tra i grandi maestri del reportage di strada come Lisette Model, Diane Arbus, Robert Frank, Alfred Eisenstaedt e Helen Levitt. In un mondo dell’arte affollato da ingombranti comparse Vivian Maier scelse di essere una invisibile protagonista. Oggi la storia la premia, la risarcisce, ma il vantaggio è tutto nostro, perché davanti alle straordinarie fotografie di questa donna tanto riservata quanto eccentrica non possiamo che sgranare gli occhi, avvinti dallo stupore e dalla meraviglia.

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Vivian nasce nel 1926 a New York da madre francese originaria delle alpi provenzali. Le notizie biografiche di cui disponiamo sono scarse e frammentarie. Il padre abbandona presto la famiglia, e nel ’32 madre e figlia si trasferiscono in Francia nel paesino montano di Saint-Bonnet-en-Champsaur, poi nel ’38 rientrano a New York. Nel ’50 Vivian incassa l’eredità di una prozia, una somma che le consente di intraprendere i primi viaggi tra California, Cuba e Canada. I primi scatti, con apparecchi non professionali, sono riconducibili a questo frangente, e sono anche gli anni in cui Vivian comincia a lavorare come baby-sitter. Nel ’52 acquista una macchina Rolleiflex e sperimenta la street-photography in giro per New York; a catturare l’interesse del suo obiettivo sono anche i bambini delle famiglie dove presta servizio, e in generale anche soggetti casuali del quotidiano. Nel ‘56 entra a servizio della famiglia Gensburg a Chicago, dove rimarrà in pianta stabile per circa un ventennio. Tra ’59 e ’60, con l’inseparabile Rolleiflex, viaggia tra Europa, Asia, India, Yemen, Filippine e Medio Oriente. Nel corso degli anni Settanta realizza anche foto a colori con la Leica e filmati in Super-8. La sua attività fotografica subisce un inspiegabile arresto all’inizio degli anni Ottanta. Successivamente Maier stiperà tutta la sua documentazione in un deposito. Negli ultimi tempi, venuta meno la lucidità mentale ed esaurite le magre risorse economiche, vivrà grazie all’aiuto della famiglia Gensburg (fino alla morte, avvenuta nell’ aprile 2009).

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Le recenti mostre italiane – quella del 2012 presso la Galleria dell’Incisione di Brescia, quella al Man di Nuoro (luglio-settembre 2015) e quest’ultima tutt’ora in corso a Milano presso Forma Meravigli (fino al 31 gennaio 2016) –  ci restituiscono un’artista tout court, che nulla ha da invidiare a quei colleghi che hanno perseguito carriere più tradizionali con annessi riconoscimenti in vita. Vivian Maier ha posato uno sguardo unico e tutto suo sulla realtà, su un mondo degli altri scrutato da una distanza di sicurezza, ma al tempo stesso affrontato, colto in flagrante, messo a fuoco. Le luci fredde e le ombre nette e impenetrabili della sua personalità le ritroviamo, sobrie e pacificate, nelle sue fotografie: piccole storie rubate al mondo, preservate e tramandate nel tempo infinito di un click.

Massimiliano Sardina


Cover Amedit n. 25 - Dicembre 2015

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