Dopo aver partecipato
alla sessantasettesima edizione del Festival di Cannes, GETT: The Trial of Viviane Amsalem, è stato candidato alla
settantaduesima edizione del Golden Globe come Miglior Film straniero, dove è
però stato battuto da Leviathan di
Andrey Zvyaginstev.
Il film narra la triste
vicenda della cinquantenne ebrea Viviane (Ronit
Elkabetz, co-sceneggiatrice e co-regista dell’opera assieme al fratello Shlomi), che, aiutata dal solo avvocato
laico Carmel (Menashe Noy), tenta di
ottenere il divorzio dal marito Elisha (Simon
Abkarian), difeso dal fratello e rabbino Shimon (Sasson Gabay).
L’opera, profondamente
radicata nello specifico ambiente di cui declina temi e problemi, porta in
scena con una regia quasi teatrale, un processo – GETT è infatti termine
ebraico che designa l’atto del divorzio –, che sconfinerà ampiamente i limiti
dell’iter giudiziario necessario per lo scioglimento del vincolo matrimoniale,
per sfociare in un vero e proprio giudizio qualitativo sulla persona e sulla
condotta della donna.
L’ambientazione, chiusa tanto da divenire claustrofobica per lo stesso spettatore – la vicenda si sviluppa infatti solo tra l’aula di tribunale e la saletta d’attesa contigua –, è registrata dall’occhio fisso della camera, che, incendendo lentamente su volti, gesti ed espressioni in lunghi primi piani che ricordano La Passione di Giovanna d’Arco di Carl Dreyer, rende l’ambiente emblema della stasi e della chiusura della società ebrea ortodossa che ritrae.
La gabbia in cui la donna si trova bloccata per volontà dei suoi padroni – i rabbini del supremo tribunale ebraico e il marito –, ritratta da una fotografia quasi manichea in cui il bianco e il nero accentuano il patetismo della situazione, è solo un elemento di quella folle e insensata burocrazia giudiziaria, di kafkiana memoria, contro cui la protagonista dovrà lottare per ottenere la libertà dal marito.
Se da un lato l’opera
ricorda, per le tematiche trattate, l’iraniano Una separazione – vincitore del Premio Oscar come miglior film
straniero nel 2012 e dell’Orso d’Oro alla sessantunesima edizione del Festival
di Berlino –, i fratelli Elkabetz sono in grado di conferire alla tormentata
vicenda di Viviane un senso in nausea e insensatezza, assente nella più
composta pellicola di Asghar Farhadi.
Pur
denunciando e mostrando senza indulgenza alcune specifiche realtà della cultura
ebraico-israeliana – dalla pervasività della religione, a una
liturgia anche gestuale che deve essere recitata dalla donna nell’atto di
“accogliere” l’istanza di divorzio –, la vicenda è per certi aspetti
condivisibile ben oltre i confini dello Stato di Israele, divenendo emblematica
della condizione della donna – intesa quale minoranza da tutelare – e del senso
di frustrazione che deriva dalla fine di un rapporto, in cui l’amore e la
passione cedono il passo a un ingiustificato senso di possesso.
GETT:
The Trial of Viviane Amsalem, tradotto in Italia come Viviane, è un’opera lunga e complessa, ma
incredibilmente profonda e delicata, capace di far vivere allo spettatore il
senso di cecità della ragione contro cui la protagonista si trova a dover combattere.
Erica Belluzzi





