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Vizi capitali: avarizia

Creato il 17 luglio 2011 da Catone
MARIO DONIZETTI
Tavola introdotta da terzine della Divina Commedia di Dante Alighieri
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AVARIZIA
L’amor ch’ad esso troppo s’abbandona, di sovr’a noi si piange per tre cerchi; [avarizia - gola - lussuria] (Purg. XVII, 136-137)
"Or ti puote apparer quant’è nascosa la veritate alla gente ch’avvera ciascun amore in sé laudabil cosa, però che forse appar la sua matera sempre esser buona; ma non ciascun segno è buono, ancor che buona sia la cera". (Purg. XVIII, 34-39)
Ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca nella sua magrezza, e molte genti fe’ già viver grame, (Inf. I, 49-51)
Così scendemmo nella quarta lacca, pigliando più della dolente ripa che ’l mal dell’universo tutto insacca. (Inf. VII, 16-18)
Ed elli a me: "Tutti quanti fuor guerci sì della mente in la vita primaia, che con misura nullo spendio ferci. Assai la voce lor chiaro l’abbaia quando vegnono a’ due punti del cerchio dove colpa contraria li dispaia. Questi fur cherci [chierici], che non han coperchio piloso al capo, e papi e cardinali, in cui usa avarizia il suo soperchio". (Inf. VII, 40-48)
Mal dare e mal tener lo mondo pulcro ha tolto loro, e posti a questa zuffa: quale ella sia, parole non ci appulcro, (Inf. VII, 58-60)
Com’io nel quinto giro fui dischiuso, vidi gente per esso che piangea, giacendo a terra tutta volta in giuso. (Purg. XIX, 70-72)
"Fino a quel punto misera e partita da Dio anima fui, del tutto avara: or, come vedi, qui ne son punita [Adriano V]. Quel ch’avarizia fa, qui si dichiara in purgazion dell’anime converse; e nulla pena il monte ha più amara. Sì come l’occhio nostro non s’aderse in alto, fisso alle cose terrene, così giustizia qui a terra il merse. Come avarizia spense a ciascun bene lo nostro amore, onde operar perdèsi, così giustizia qui stretti ne tene, ne’ piedi e nelle man legati e presi; e quanto fia piacer del giusto sire, tanto staremo immobili e distesi". (Purg. XIX, 112-126)
Maledetta sie tu, antica lupa, che più di tutte l’altre bestie hai preda per la tua fame sanza fine cupa! (Purg. XX, 10-12)
O avarizia, che puoi tu più farne, poscia ch’a’ il mio sangue a te sì tratto, che non si cura della propria carne? (Purg. XX, 82-84)
Noi repetiam Pigmalìon allotta, cui traditore e ladro e parricida fece la voglia sua dell’oro ghiotta; (Purg. XX, 103-105)


Una luce fredda e bianca illumina dal basso il tragico crepuscolo.
L’Avarizia, lupa che "molte genti fe’ già viver grame", rinserra al petto il sacco del suo tesoro facendosene guanciale. Braccia e volto contratti in uno sforzo continuo e terribile di possedere. In precario equilibrio siede su un sacco ancor più grande, quasi rinserrandolo fra le gambe, non avvedendosi di schiacciare con esso un cadavere senza volto, apocalittico emblema della miseria altrui, estremo relitto fino a lei sospinto dal mare immenso della fame che ogni giorno divora migliaia di uomini, di donne, di bambini scheletriti dal ventre gonfio. L’aria sembra risuonare dei loro gemiti continui.
Come "lupa... carca nella sua magrezza" o "usura che offende la divina bontade" la donna ghermisce il suo tesoro, ansiosa di non perderlo e di accrescerlo; allo stesso modo l’ombra ghermisce il suo corpo e ne scarnifica i profili. Lo sguardo obliquo e reclinato non può vedere. È accecato - come scrive Cipriano - da spessa e profonda caligine di avarizia che ne allontana ogni splendore di verità. Il volto è impassibile. Il corpo longilineo è esageratamente magro; le gambe lunghe, sottili, nervose come il piede, solo in punta appoggiato al terreno.
Nei due grandi sacchi è fin troppo facile vedere un riferimento ai macigni che - nell’Inferno - gli avari sospingono con il petto. Dante li guarda con acre disprezzo, ridotti come sono a pura materia in movimento avendo riposto le loro anime nella materia.


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