Lo scintillio degli occhi di una ninfetta, una leggera lanugine sul braccio: chi può cogliere dettagli infinitesimali, laddove il resto degli uomini non vedrebbe che perversione, entra nel regno del martirio più profondo, dell’ossessione più recondita; scorgerà il volto stesso dell’Amore Tragico. In Lolita di Vladimir Nabokov (edito da Adelphi – traduzione di Giulia Arborio Mella) il protagonista, Humbert Humbert, ha un’ossessione incompleta per le bambine, derivante dalla tragica fine del suo primo amore, ma il bel quarantenne insegnante di francese che piace alle donne non ama tutte le bambine. Ama solo le ninfette, quelle dotate di uno speciale scintillio che le rende diaboliche. La ninfetta non è innocente e Amore e Morte sono emanazioni simmetriche e tragicamente reali della stessa natura, un circolo vizioso, dove il Vizio è tragico godimento sfiorato, mai assaporato del tutto, anche quando la luce obliqua del tramonto illumina un letto sfatto e il corpo nudo, senza più pudore, di una dodicenne. Lolita è la Ninfetta. E dal momento in cui la incontra, H.H. amerà solo lei. Lo stile di Nabokov è poesia pura e ci porta in luoghi di una bellezza accecante che si snodano rapidamente davanti a noi, come se percorressimo coi protagonisti le stesse strade assolate e deserte di un’America sonnacchiosa ed indifferente. Ed entriamo con parole, colori, suoni e vigorosa ironia, nell’abitacolo impolverato e triste di un’auto in corsa verso il nulla, in cui una bambina ferita infierisce su un uomo innamorato, in cui un uomo innamorato infierisce su una bambina ferita. Non c’è salvezza in “Lolita”, H.H. è l’emblema della rassegnazione che pervade l’intero romanzo, una sconfitta che macera nel profondo di un paese contraddittorio ed inerme. Ma non ci sono banali moralismi, il moralismo, anzi, è deprecato e assediato da una scrittura vivace, poetica, agghiacciante per cinismo e crudezza, ma mai volgare, sempre intrisa di una poesia tragicamente violenta e realista che illumina i suoi protagonisti di un’aura di odio, pena e amore. E non può che finire in tragedia, come finisce ogni vita, come forse finisce ogni grande amore, e la tragedia non è solo morte, non è solo assassinio. La vera tragedia è la solitudine: la sensazione di aver sempre amato da solo. Sempre e inutilmente.
In La sonata a Kreutzer di Lev Tolstoj (Einaudi – traduzione di Leone Ginzburg) i rapporti umani sono strani, eterei, variabili: fanno paura, annoiano, diventano l’unico motivo per cui vivere o l’unico motivo per uccidere. Tolstoj ci parla di un amore che si nutre di illusioni, di miraggi immacolati, di un’idea irraggiungibile di perfezione che conduce ineluttabilmente all’assassinio e alla morte, quando ogni illusione viene distrutta. Se l’amore non fosse così perfetto, così puro nella mente degli uomini, non si proverebbe il dolore della scomparsa, con La sonata a Kreutzer visitiamo le tappe più crudeli del declino di una storia d’amore: l’inconsapevolezza, la pura sofferenza causata dalla discrepanza tra desiderio e realtà, quando il dolore è ancora camuffato e si stenta a comprenderlo; il silenzio, l’ombra che separa insofferenza e realtà, l’attimo in cui si manifesta la fine di una storia che vive solo della reciproca indecisione. E alla fine, la fredda consapevolezza e quindi la morte dell’amore che porta all’omicidio, nel caso del protagonista. Breve, profondo, tagliente come una lama, come solo i grandi libri sanno essere, di una bellezza dolorosa e affascinante, rassegnata e brutale com’è l’amore, com’è a volte la vita. Il volto più tragico dell’Amore raccontato da due grandissimi della letteratura, una discesa negli inferi in nome di un sentimento universale che gli uomini di ogni tempo e regione hanno sempre descritto come puro, perfetto ed eterno. Leggere Lolita e La sonata a Kreutzer è come osservare il candore gelido della neve macchiarsi di sangue caldo, è il racconto di due assassini: nel primo caso la vittima resta in vita e diventa a sua volta carnefice, nel secondo la vittima muore, ma continua a perseguitare il suo carnefice spingendolo a confessare la sua colpa, perché l’Amore è un’arma a doppio taglio e quando colpisce, la ferita non resta mai soltanto su chi soccombe. Come trasformare un’idea di purezza in perversione e omicidio, come trascinarla nella polvere e poi cristallizzarla nella morte, come creare dalla banale quotidianità una tragedia che vivrà in eterno? Nabokov e Tolstoj lo sapevano, e possono raccontarcelo ancora.