Voci da “dentro”

Creato il 06 marzo 2013 da Stampalternativa


Finalmente poter ascoltare le “voci da dentro” stando qui fuori, senza dover origliare o sbirciare; ma solo perché loro, i 36 detenuti che hanno scritto insieme con la curatrice, Francesca de Carolis, questo notevole e scomodo libro[1] - sono quasi tutti reclusi in circuiti penitenziari differenziati. Voci che vengono dal carcere più duro che appare, dal punto di vista della durata, e non solo, come l’inferno (quanto dura l’inferno? Sempre. Quando finisce l’inferno? Mai): dal 41 bis riservato, al 41 bis, a quello ad Alta Sicurezza, all’Elevato Indice di Vigilanza che, dal 2009, è stato sostituito da tre sottocircuiti dell’Alta Sicurezza –. Tutti i “padroni” di queste voci  hanno consapevolmente deciso, rispondendo a domande di «insegnanti, medici, volontari, giornalisti, suore» (p. 9), di farci, appunto, il dono di quello che accade lì dentro, ma soprattutto di quello che essi pensano, desiderano, spesso disperano… di fare ed ottenere, mettendoci chiaramente, e terribilmente, a conoscenza di «cosa succede all’interno delle carceri»  italiane (Giuseppe Pullara, p. 64), soprattutto di certe carceri, nonostante Cesare Beccaria, nonostante i diritti sanciti nella Costituzione, nonostante il “visitare i carcerati” del cristianesimo (che, pure, nel Giubileo del 2000, aveva chiesto, inascoltate, un gesto di “grazia”).  Come la copertina di Vauro (cf p. 13), soltanto delle voci – voci di coloro che non hanno ancora preso, come succede ad altri, la disperata via del suicidio «davanti a tanto ferro grigio» (p. 115). Voci che escono da una bocca che cerca di far sentire il proprio urlo interiore, voci che attendono comunicazione e perciò vogliono comunicare, anche da dietro le sbarre delle celle e soprattutto da dietro le sbarre, più spesse, dell’ignoranza, del disinteresse, della connivenza con pratiche ai limiti della tortura. Voci provenienti da lì dentro, da dove, come in altrettante stazioni di una dolorosissima via crucis, ci si racconta di come vengano disattesi i diritti fondamentali sanciti nella Carta costituzionale; da dove ci si parla di ambienti igienicamente malsani, dove il rumore del ferro è diventato l’unico rumore di fondo, dove si desidera farla finita, quasi di essere “distaccati” dalle macchine (come chiese ed ottenne P. Welby); da dove, nel 2007, in 310 si poté giungere perfino al gesto eclatante, e disperato, di scrivere al Presidente della Repubblica per chiedere addirittura «la pena di morte in sostituzione dell’ergastolo» (p. 121, C. Musumeci), pur di farla, in qualche modo, finita con un regime carcerario che non soltanto ti toglie l’aria, le relazioni, gli affetti più cari – ti mutila nei sentimenti (altro che mutilazioni genitali femminili!), ti ammala il corpo, ma soprattutto ti toglie la mente e l’anima, ponendosi esplicitamente in contrasto, come ricorda C. Musumeci, «con il principio della funzione rieducativa della pena» (p. 35). E il tutto in un Paese le cui istituzioni – famiglia, stato, chiesa – ci parlano di funzione educativa e ri-educativa, addirittura, per il decennio 2010-2020 la chiesa, di educare alla “vita buona del vangelo”! Ci racconta così Mario Trudu l’arida risposta ufficiale a quel gesto collettivo e partecipato: «Il due settembre 2009 il Tribunale di Sorveglianza di Perugia, alla mia richiesta di tramutare la mia condanna all’ergastolo in pena di morte (da consumarsi con fucilazione in piazza Duomo a Spoleto) ha risposto così: “Poiché la pena di morte non è prevista dall’Ordinamento né ammessa dalla Costituzione, si dichiara inammissibile l’istanza in oggetto”» (p. 119).
E di fronte a questi racconti – spesso pugni nello stomaco a motivo delle situazioni di sopraffazione della dignità umana che vi vengono narrate -, davvero non ci si chiede più per quali reati o per quanti assassini o stragi si è stati, non soltanto sbattuti lì dentro come sardine in scatola (l’immagine è ancora di Musumeci, p. 46), ma si è stati per sempre – fine pena mai – posti, in modo coatto, in situazione di totale impotenza (p. 65), vilipesi, conculcati, condannati ad una morte in vita, costretti a volte – pur dovendo stare da soli per il tipo di circuito a cui si è stati condannati – a convivere, per esempio, con uno che fuma anche se sei allergico alla nicotina (Giovanni Farina, p. 48), a non disporre neppure di biancheria con un minimo di pulizia solo perché sei stato trasferito la notte del venerdì e la lavanderia del carcere resterà chiusa fino al lunedì successivo; oppure a dover essere curato dal medico competente territorialmente, che ti tiene in carico insieme con i tanti che vivono fuori e non può stare tanto a sottilizzare con le tue pur legittime esigenze odontoiatriche oppure oculistiche ed ottiche.
Non è che la nostra società civile stia identificando «il reato con la persona che l’abbia commesso»? (G. Pullara, p. 65); non è che, dopo «i reati di mafia all’inizio degli anni ‘90») (p. 9), ci si stia immunizzando contro la propria incapacità di rendere preventivamente inutile l’illegalità mafiosa, finendo per mafiosizzare tutto, fino a non tener più conto delle differenze, tante, dei soggetti che commettono dei reati, pur odiosi, fino a non tener più conto di possibili alleanze (o intese) intervenute, in quegli anni, tra cupole illegali e pezzi istituzionali dello Stato? (cf p. 129, n. 2, dove si allude all’inchiesta di Caltanissetta su apparati statali e funzionari che avrebbero collaborato o avrebbero stretto intese per le stragi in cui perirono, ad esempio, Falcone, Borsellino, agenti di scorta). Non è che, continuando con il pessimo gusto, già presente negli ambienti di mafia, di usare un gergo religioso per le proprie mire delinquenziali, si sia finito per ricorrere a degli strumenti normativi che, anche nel nome, invogliano ad un falso pentimento e ad un falso perdono (cf soprattutto pp. 134-138), ovvero ad un falso religioso? Stando anche a diversi di questi racconti, pentimento e perdono, pur con le loro esplicite, e genuine, risonanze etico-religiose, non fanno altro che invogliare i detenuti per mafia alla delazione, fino a spingere addirittura ad inventare reati commessi da altri, pur di ottenere qualche sconto e  beneficio, ai sensi del 4 bis della legge sul trattamento penitenziario (cf p. 28), il famigerato articolo che «esclude la concessione dei benefici… e delle misure alternative al carcere per le persone condannate per i reati di stampo mafioso… a meno che non si collabori con la giustizia» (p. 28). Ma, in tal modo, ci ribadiscono i racconti, il collaboratore di giustizia – anche eventualmente l’innocente –, invece di pentirsi davvero ed ottenere almeno il perdono sociale, rischia di doversi, piuttosto, auto-accusare «di delitti che non ha commesso» (p. 31), o di accusare chiunque gli capiti a tiro, pur di diminuire la pena, ottenere qualche beneficio, esercitare fondamentali diritti, bene affermati sul piano teorico, al recupero, al mantenimento delle relazioni familiari, affettive e sessuali; come pure, rischia che i reati ascritti al detenuto si moltiplichino «perché il reato ti viene attribuito nel corso del processo, e non prima, in base agli sviluppi che nasceranno nel medesimo processo dalla collaborazione dei pentiti!» (Gianni Zito, p. 31). Ecco perché, procedendo in tal modo, il 41 bis può apparire a chi lo ha subito, come ad Alfredo Sole, come non più nato, come forse avrebbe voluto, «per impedire che la persona in carcere comunicasse con la propria organizzazione», bensì fatto nascere «per vendetta. Sì, la vendetta dello Stato» (p. 33). Di fronte alla quale non suona oscena, ma terribilmente pertinente, la domanda di Girolamo Ranesi: «Inoltre, che cazzo ne avete fatto di tutti i soldi spesi per combattere la mafia?» (p. 76)
Queste pagine, troppe, sono dolorose ed infliggono dolore nel lettore; non soltanto perché parlano di dolori fisici, di soprusi e di tante vessazioni materiali subìte dai detenuti, o di tante sofferenze psichiche, morali, affettive e relazionali, ma perché addolorano un esponente della società civile, quali molti di noi si ritengono, di fronte a tante, troppe, procedure che, se non sempre rasentanti la tortura, appaiono almeno dei trattamenti inumani, disumani, o degradanti, tanto più odiosi perché non applicati a tutti i reati gravissimi, ma solo ad alcuni; non a reati di lotta armata, di terrorismo, o di assassini o stupri, diciamo così, “ordinari”, ma solamente a “straordinari” reati di mafia. Soggetti dstinati a morire in carcere, se non si mette in cella un altro al posto tuo, insomma? Sembra questa l’amara conclusione di un incontro riportato alle pp. 36-37, con quei possibili profili della norma in vigore, ancora più infami in quanto potrebbero fare, del pentitismo e del collaborazionismo, quasi un “apostolato” (come insinua la critica di Paolo Lo deserto, p. 40), o, peggio ancora, soltanto il mezzuccio, si fa per dire, per uscire dal carcere, per prendere soldi dallo Stato (per sé e per i suoi), per vendicarsi dei propri nemici. Tutti comportamenti, questi descritti, che vengono, da dentro, ritenuti, fondatamente, dei comportamenti da Giuda (p. 42)
I profili che ne emergono, nel complesso, sono tanti, da tanti punti di vista e fanno apparire davvero, come rimprovera Sebastiano Milazzo, una «funambolica retorica mediatica» (p. 86) la cosiddetta finalità ri-educativa della pena. Mi piace evidenziarne almeno uno, che emerge continuamente in queste pagine quasi di diario, peraltro in connessione con l’imminente proclamazione a beato, come “martire della fede”, di don Pino Puglisi, assassinato da un sicario per ordine della mafia di Palermo. La verità meramente giudiziaria ci dice che quell’omicidio fu commissionato dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, per mettere a tacere un sacerdote scomodo, che, col suo ministero di pastore di anime, di formatore di coscienze cristiane, soprattutto di quelle dei fanciulli, li ridicolizzava agli occhi della gente, sottraendo loro manovalanza. Ma esiste anche una verità interiore, come mostra quel sorriso con cui Puglisi guardò il sicario, perdonandolo. Diversi detenuti (peccato che, in queste pagine, siano tutti uomini; sarebbe interessante guardare anche alla percezione dal punto di vista dell’universo femminile) ci parlano, non a caso, di processi interiori (p. 39), di cambiamenti, di avvenimenti spirituali (per esempio, perfino la preghiera a Dio, di cui parla esplicitamente Giovanni Lentini, p. 38). Spiragli d’infinito nel buio del male; luci nei momenti senza fine dietro le sbarre, quando si è costretti ad essere uno dei tanti in questo agglomerato di persone - non certo una famiglia, come si desidererebbe - che è il carcere (p. 68). Spesso mandati sadicamente lontano geograficamente dagli affetti più cari per mero spirito di punizione ed afflittività; spesso impediti in qualunque manifestazione di contatto, di comunicazione, di affettività e di sessualità (ritorna, in queste pagine, il tema che non si dovrebbe osare di chiamare un “carcere” la vita coniugale e familiare, se ben si pensa a cosa sia effettivamente un carcere!, cf Antonino Sudato a p. 69). Un carcere è un ambiente, sotto questo profilo, davvero brutale, soprattutto negli ultimi anni allorché «si sono persi alcuni valori» perfino «all’interno delle carceri» (Ciro Bruno, p. 81) o, come ci segnala il detenuto “storico” Salvatore Diaccioli, «oggi l’ambiente carcerario è molto cambiato, i princìpi sono pochi e i valori nella stragrande maggioranza non sanno cosa siano» (p. 83). Chi mai è in grado di entrare, come si dovrebbe, nel profondo dell’intimo del reo – particolarmente di quello che sta gettato lì dentro da altro vent’anni - e verificarne, soprattutto a distanza di anni dagli eventi delinquenziali e mafiosi, l’avvenuto cambiamento interiore e, come insegna il Cristo di fronte al ladrone, come ribadisce il sorriso finale di don Puglisi di fronte al sicario che gli stava per sparare, riuscire a perdonare sempre, perdonare tutti, un’infinità di volte? Non certamente sono in grado di farlo, ci rispondono i detenuti del libro, i freddi esponenti della macchina della giustizia o gli impersonali funzionari che guardano, ma non vedono (p. 92), esercitando, come lamenta Pasquale De Feo, «le dittature delle direzioni delle carceri, del Magistrato di Sorveglianza e di tutti gli apparati di sicurezza» (p. 93). Eppure, nei «profondi momenti di riflessione che credo sia impossibile trovare in altri luoghi» (Sebastiano Prino, p. 110), consentiti proprio dal carcere più duro, non si deve a priori escludere l’intervento trasformante di Dio, prim’ancora del perdono delle vittime dei reati e del re-inserimento sociale protetto. Non si deve escludere, magari perché mossi dalla fede (come confessa Girolamo Ranesi, p. 135), insieme con la presa d’atto delle proprie scellerataggini, l’eventualità di «trovare la forza e il coraggio di darsi un’attenuante» (ivi). Anche se si è ammazzata gente e la si è sciolta nell’acido, bisogna lasciare la possibilità al detenuto, stavolta veramente, di “pentirsi” ed a Dio di essere un Padre che «guarisce i propri figli con l’amore. Perché sa di perderli del tutto se li castiga ogni giorno per un male commesso nel passato lontano» (p. 138).
Rosario Livatino, giovane magistrato assassinato dalla mafia, annotava nel suo diario: «Alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili». Quando la nostra società deciderà di essere finalmente più credibile, almeno in questa frontiera così delicata, ma spesso ancora così disumana, dei «circa 1.200, sui circa 1.500 condannati all’ergastolo, cui in Italia sono di fatto cancellati tutti i diritti e benefici previsti durante la detenzione dalla legge per buona condotta»? (p.9).
(Formia- Archivio di Stato. Intervento di Pasquale Giustiniani*)

[1] Francesca de Carolis (a cura di ), Urla a bassa voce. Dal buio del 41 bis e del fine pena mai, Prefazione di don Luigi Ciotti,


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