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Voci di dentro

Creato il 03 settembre 2015 da Gaetano63
Voci di dentroA colloquio con Gianfranco Pannone
Le esperienze quotidiane di un gruppo di reclute della Guardia svizzera chiamate a interpretare se stesse negli otto mesi dall’arruolamento al giuramento
di Gaetano Vallini«Doveva essere un documentario su commissione, ma poi è diventato qualcosa di diverso e di più personale». Il regista Gianfranco Pannone spiega così il docufilm L’esercito più piccolo del mondo con il quale il Centro televisivo vaticano (Ctv), per la prima volta in veste di produttore di un lungometraggio, sbarcherà al prestigioso Festival del cinema di Venezia il 9 settembre prossimo. Presentata fuori concorso, la pellicola è dedicata alla Guardia svizzera pontificia. Tuttavia non si tratta di un’opera oleografica, ma di un racconto dall’interno, attraverso lo sguardo e le esperienze quotidiane di un gruppo di reclute, chiamate a interpretare se stesse negli otto mesi dall’arruolamento al giuramento. Il regista era in contatto con monsignor Dario Edoardo Viganò, direttore del Ctv e prefetto della Segreteria per la Comunicazione, per un progetto diverso, un documentario sulla Chiesa e sul suo modo di comunicare con l’esterno. Ma poi sono arrivate le Guardie svizzere. «L’idea è stata fin dall’inizio — ci spiega Pannone — quella di mostrare con sguardo laico il dietro le quinte della Guardia svizzera, andando al di là degli stereotipi, di ciò che viene solitamente detto su questo Corpo, visto come una istituzione anacronistica, un po’ segreta e inaccessibile. Un’istituzione in cui invece ho trovato un’apertura di cui io stesso mi sono sorpreso».  Certo non è stato facile entrare in questo mondo: si tratta di militari, che hanno anche delicate responsabilità. Ma quasi subito si è creato un rapporto di fiducia, un’amicizia con gli ufficiali referenti. «È stato bellissimo. Ci consultavamo su tutto — dice il regista — confrontandoci di volta in volta su cosa fosse giusto inserire o togliere. Li ho invitati ad avere fiducia in me, spiegando loro che volevo raccontare con discrezione l’esperienza delle giovani reclute, entrando nella camerata, nella mensa e in altri luoghi fino ad allora off limits. Sono convinto che un film del genere sia stato possibile anche perché c’è questo Papa. Evidentemente la volontà di apertura, di  trasparenza, di togliere gli orpelli e tutto ciò che sa di segretezza, e che a volte non aiuta l’immagine della Chiesa, non poteva non coinvolgere anche la Guardia svizzera».  La prima sorpresa è stata dunque la grande umanità trovata all’interno del Corpo. Umanità che il regista ha cercato di rendere nel film attraverso la concretezza dei giovani protagonisti. Che sono stati scelti così: «C’è  — spiega Pannone — chi si occupa di andare a trovare i candidati in Svizzera, valutandone i requisiti. Sono andato da ragazzi preselezionati e ne ho scelti due in particolare: René, studente di teologia, l’intellettuale, diciamo così, e Leo, un guardaboschi, una ragazzo di campagna, molto semplice. Ai quali si è aggiunto Nicola, figlio di immigrati della Basilicata, di terza generazione, che non ha nulla dell’immaginario della Guardia svizzera». «Fra loro — aggiunge — emerge in particolare la figura di René, giovane laureando in teologia, che si pone degli interrogativi. A cosa può servire oggi, oltre all’aspetto estetico, la Guardia svizzera? A che cosa siamo utili? E finisce con trovare una ragion d’essere proprio nell’esempio del Pontefice. Francesco porta l’abito del Papa ma è se stesso. Questo ragazzo di venticinque anni rimane se stesso pur portando una divisa del Cinquecento. Da cristiano lo considero un messaggio assai importante». Ma l’operazione più interessante, oltre al raccontare la normalità della vita all’interno delle Mura Leonine, è stata quella di mettere a confronto la semplicità di questi ragazzi, provenienti dalla provincia della Svizzera, con la storia, per cercare un nesso con il presente. Una storia che passa anche attraverso la straordinaria arte custodita all’interno del Palazzo apostolico. «A un certo punto — spiega in proposito il regista — René si trova a confrontarsi con la Cappella Sistina. L’aveva già vista, ma vederla aprirsi improvvisamente sotto i suoi occhi, vuota, mentre è di guardia, lo emoziona. Così come, e vale anche per i suoi commilitoni, osservare in solitudine, nel silenzio e nella penombra della notte, le scene grandiose affrescate nella Sala Regia. Come la battaglia di Lepanto, uno scontro tra occidente e oriente le cui suggestioni ci riportano al presente. Credo che nel film emergano sullo sfondo i conflitti di questa nostra epoca, dai quali la Chiesa di Papa Francesco non si tira indietro, interpretando un ruolo attivo nel confronto tra diverse culture. Inoltre — aggiunge — l’idea di grandezza che promana dal Palazzo apostolico è per certi versi contraddetta dallo stesso Papa. I ragazzi rimangono molto colpiti dal fatto che risieda a Santa Marta. Una realtà che mette in crisi René: a che cosa faccio la guardia? Chi devo controllare se il Papa è di là? Anche se in un’altra scena si vede uno dei ragazzi che veglia sul sonno del Papa, stando a pochi metri da lui, e che poi racconta questa prima esperienza con grande emozione».In qualche modo il Pontefice costringe anche le giovani guardie a doversi confrontare con qualcosa di nuovo. «Le mura che presidiano — riflette il regista — non sono dei bastioni di difesa, perché non devono esistere delle mura che chiudono al dialogo con l’esterno. L’insistere sul Papa che risiede a Santa Marta piuttosto che al Palazzo apostolico è l’esemplificazione di un messaggio che gli stessi ragazzi accolgono con grande sorpresa ma anche con ammirazione».Dal punto di vista della realizzazione la scelta è stata quella di mettere insieme il gruppo di lavoro del regista — tra gli altri il direttore della fotografia Tarek Ben Abdallah, il fonico di presa diretta Andrea Viali, l’aiuto regista Chiara Zilli e la montatrice Erika Mannoni — e personale del Ctv: l’operatore Cesare Cuppone, che dal 1988 segue il Papa, il direttore tecnico Stefano D’Agostini, l’assistente alle riprese Sergio Ravoni, l’assistente al montaggio Franco Piroli, con la collaborazione di Luca Rossi e Damiano Proietti. «Ho trovato grande disponibilità e umanità in tutto il gruppo, al quale si è aggiunto Stefano Caprioli, autore della musica. Soprattutto Cuppone — tiene a sottolineare il regista — è stato fondamentale, per la sua esperienza e conoscenza di luoghi e persone». Anche l’operatore del Ctv sottolinea il clima positivo creatosi nella troupe. «Formare una squadra interna ed esterna — puntualizza — ha significato uno scambio professionale, oltre che umano. Noi portavamo quella che è la sensibilità di chi conosce i luoghi e sa come muoversi all’interno, loro l’esperienza di documentaristi. La troupe esterna ha potuto apprezzare la nostra professionalità, ma anche con quanta delicatezza, discrezione e rispetto ci muoviamo in un ambiente così piccolo e soprattutto così particolare. Il fatto che ci fosse una persona conosciuta dietro la camera è stata una sorta di garanzia che ha permesso di andare un po’ oltre, consentendoci di poter girare anche cose inediti». Certo, aggiunge, «sarebbe stato molto più semplice e sicuro girare un documentario più istituzionale, il classico racconto della storia della Guardia svizzera. Ma la scelta di seguire il percorso di alcune reclute ha reso il lavoro meno scontato, soprattutto più vero».Per l’operatore si è quindi trattato di un’esperienza inedita e interessante. «Non era la prima volta che facevo riprese per un documentario — spiega Cuppone — ma stavolta, anche se non c’erano attori professionisti e una sceneggiatura, tutto è stato girato con le caratteristiche di un film con le figure professionali necessarie per un lungometraggio: regista, direttore della fotografia, operatore, fonico, montatore, e così via. Quando sono con il Papa, specie nei viaggi, sono invece solo e devo fare un po’ tutte queste cose. Ho imparato soprattutto l’importanza di uno sguardo distaccato, come quello del montatore, che permette di compiere scelte più coerenti con la storia che si vuole raccontare. Un operatore invece s’innamora di una determinata scena, di un dettaglio e così gli è più difficile tagliare». Quanto a René — che terminata la ferma tornerà all’università — la sua motivazione più grande «era riflettere intensamente su  quanto visto e vissuto durante i primi mesi nella guardia. E il film ha potuto dimostrare — aggiunge — che c’è qualcuno che vuole capire che cosa è la Guardia, ma anche com’è la Chiesa. Quelle che mi faccio nel film sono domande che mi ponevo in parrocchia e nel corso degli studi. Per questo non ero imbarazzato durante le riprese. Certo, sono state fatte domande e messe in dubbio alcune esperienze. Ma è stata una sfida interessante. Ovviamente non tutti erano sempre contenti quando la camera ci riprendeva da vicino. Ci sono alcuni posti riservati solamente alle guardie. Ma credo che alla fine la maggior parte dei colleghi siano rimasti molto soddisfatti del risultato».(©L'Osservatore Romano –  4 settembre 2015)

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