Negli ultimi anni si è assistito ad una vera e propria fuga dalle grandi città. Secondo il Censis il 54% degli italiani vorrebbe vivere in provincia, soprattutto in un piccolo comune, perché la qualità della vita sarebbe più alta. E’ davvero benefico vivere in campagna? Scopriamolo insieme.
La terra è bassa, recita un vecchio proverbio contadino, a sottolineare l’enorme fatica richiesta dal lavoro agricolo che costringe a piegare la schiena. Eppure, mai come in questi ultimi anni, la campagna sta prendendosi la rivincita, dopo decenni di fuga verso la città. Anche se il processo di urbanizzazione costante ha fatto sì che le persone che risiedono nelle città abbiano superato quelle che vivono nelle campagne, la vita metropolitana sta svelando le sue controindicazioni e le promesse non mantenute. Ritmi di lavoro troppo pressanti, ansia e incertezza per il futuro, limiti nelle relazioni umane, oltre ad aspetti molto concreti come aria inquinata e disoccupazione stanno portando studiosi e gente comune a mettere in discussione il modello urbano.
Perché non tentare il processo inverso? Rallentare i ritmi, scegliere la parsimonia e la qualità, migrando dalla città in campagna? A scatenare l’attrazione verso la vita rurale si aggiunge il fatto che oggi la campagna non è più quella di 50 anni fa e può offrire ospedali, cinema, teatri, centri commerciali, scuole e corsi di ogni tipo nel raggio di pochi chilometri. Grazie a Internet, poi, si può lavorare restando sempre connessi con il mondo intero.
Benefica per la salute. Ma la forza segreta della vita in campagna ha radici molto più profonde. Il padre dell’etologia Konrad Lorenz, nel suo libro Il declino dell’uomo, le chiamava “armonie della natura”. Si tratta di quell’insieme di forme naturali che soddisfano il nostro senso estetico e con cui entriamo in un una relazione empatica. Per i ricercatori è la biofilia, ovvero la predisposizione innata a trarre beneficio emotivo dall’ambiente naturale. E potrebbe essere la chiave di volta per migliorare davvero la qualità della nostra vita. Non solo. Uno studio apparso recentemente su Nature, realizzato dall’Istituto centrale di salute psichica dell’Università di Mannheim, rileva che chi vive in campagna ha il 40% di probabilità in meno di soffrire di disturbi dell’umore (come la depressione) e il 20% di probabilità in meno di avere attacchi di panico rispetto a chi risiede in città. Anche patologie psichiatriche serie come la schizofrenia si presentano con un’incidenza dimezzata. Non basta. Pressione arteriosa e livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, sono più bassi tra i non urbanizzati. In queste persone, monitorate con la risonanza magnetica, è molto meno attiva l’area cerebrale dell’amigdala, il centro biologico della paura. Anche la corteccia cingolata anteriore, pure deputata alle condizioni di stress e di allarme, si è mostrata più attiva nei soggetti che hanno trascorso l’infanzia in città. Secondo Daniel Kennedy, un ricercatore del Mit di Boston che ha commentato su Nature la ricerca, “proprio questo circuito cerebrale disturbato risulta alla base di alcune malattie mentali”.
Biofili nati. La parola chiave è: adattamento. Tutti gli esseri umani nascono con la predisposizione a vivere in piccoli villaggi, a contatto con la natura. Sono, cioè, intrinsecamente “biofili”. L’educazione e l’esperienza nel corso della vita possono più o meno accentuare questa predisposizione genetica.
La teoria della biofilia fu lanciata nel 1984 dal noto naturalista Edward O. Wilson. Si basa sul fatto che l’uomo si è evoluto in decine di migliaia di anni come cacciatore e raccoglitore, in una relazione intima con flora e fauna: dovendo dipendere in tutto dalla natura, ne conosceva i molteplici aspetti. Ma era in grado di provare emozioni importanti per la salvaguardia e la qualità della sua esistenza. Nella preistoria le armonie della natura rigeneravano emozionalmente l’uomo che doveva restare vigile per schivare pericoli e procurarsi il cibo. L’enciclopedia dei cacciatori raccoglitori, edita dall’Università di Cambridge – dedicata a tribù di cacciatori ancora esistenti ed elaborata con il contributo degli antropologi più impegnati sul campo -, spiega che in questi gruppi sono praticamente assenti problemi psicologici.
Riattiva la mente. Ma la biofilia fa sentire i suoi effetti anche nella vita moderna, come dimostra il test in corso all’Università della Valle d’Aosta. “Abbiamo visto che i bambini esposti ad ambienti naturali rigenerano e aumentano le loro capacità di attenzione” spiega Giuseppe Barbiero del Dipartimento di psicologia e scienza sociali. Gli esperimenti vengono condotti su bambini fino a 11 anni. I più piccoli, a livello di asilo nido, mostrano una irrefrenabile attrazione verso gli animali, mentre sono piuttosto indifferenti verso ciò che è inanimato. Gli alunni delle elementari vengono sottoposti a test sull’attenzione. “Per esempio” continua il ricercatore “devono indicare una sequenza stabilita di tre lettere in mezzo a tante altre sequenze scritte a caso. Dalla individuazione della sequenza esatta, ogni bambino ottiene un punteggio. Si chiede di eseguire il test dopo un periodo in cui la loro attenzione diretta – che in tutti, anche negli adulti, dopo un po’ tende a scaricarsi – si è rigenerata attraverso l’esposizione a un ambiente naturale. I bambini dimostrano una sorta di fascinazione per il paesaggio, entrano in empatia con il verde e gli animali. La ricarica avviene quindi più velocemente e le performance dell’attenzione sono superiori rispetto al gruppo di controllo”.
Fonte: Focus. Scoprire e capire il mondo. N. 245 – Marzo 2013.