Ciao,
il titolo di questo post è una delle affermazioni che
ascolto spesso quando parlo di crescita personale.
Ebbene si il mondo è zeppo di brave persone che
vogliono darsi agli altri in una professione d'aiuto
di nuova generazione. Si esatto, si tratta proprio
di una "professione d'aiuto" ed ha le stesse regole
di tutte queste professioni. Regole fra virgolette
visto che di per se come professione non è del
tutto regolata, tranne quell'ultimo decreto che
sdogana tutte le professioni senza albo...
...ti ho parlato spesso di coaching quindi dovresti
sapere come la penso, ma oggi non voglio parlarti
del fatto se sia giusto o meno che chiunque possa
un giorno dichiararsi coach. Ma del fatto che chi
si approccia a lavorare con il prossimo deve avere
una certa preparazione, in primis per evitare di
fare danni ed in secundis per evitare di danneggiare
se stesso. Infatti come si sa nel mio ambiente le
professioni d'aiuto sono le più soggette a
burn-out.
Che roba è il Burnout? Quando le richieste dei nostri
clienti diventano troppe o troppo stressanti possono
influire sulla nostra "salute professionale". In poche
parole ci "esauriamo" nei confronti di quel compito.
E ti assicuro che sono proprio le persone che hanno
questo potere, cioè di "esaurirci" più facilmente. E
più una persona è brava ad "esaurire le proprie
risorse" è più è brava ad esaurire quelle altrui.
E visto che anche il coaching si basa su questo
tipo di risorse, anche il coach è a rischio burnout.
Ma la cosa che pochi ti dicono "caro mio coach" è
che il tuo mestiere è davvero difficile. Molti
pensano di apprendere quelle 4 cavolate basate sulla
forma (cioè applicabili a qualsiasi processo) e di
poter così sapersi muovere nella mente del cliente.
Ed invece arriva "Genna il cattivone" a dirti che le
cose sono un po' più complesse di così. Per prima
cosa il coach deve saper capire quanto "succhia
risorse" il proprio cliente...
...solo questa è un'operazione "diagnostica" che
viene difficile ai miei colleghi (mediamente ognuno
con 11 anni di studi alle spalle e minimo 500 ore
di tirocini e supervisioni). Si tratta di capire se la
persone davanti a te è in grado o meno di seguire
i tuoi "consigli". Se è in grado o meno di funzionare
in modo adeguato per raggiungere gli obiettivi che
ti vengono richiesti. Insomma si tratta di una vera
e propria "analisi delle competenze" che si
intreccia con una "diagnosi clinica".
Quindi paradossalmente il lavoro del coach, che ci
sembra molto specifico, diventa una specie di
consulenza generica. E quando le cose diventano
"generiche" o si diventa superficiali oppure è
necessaria una preparazione vasta, magari non
specifica e profonda, ma vasta. Proprio come
quella di un infermiere, che come si sa sono
molto più pratici dei medici ma anche molto
meno preparati nello specifico.
Se voglio conoscere le dinamiche ospedaliere
non vado da un medico ma da un infermiere che
ha, per così dire "le mani in pasta". E' uno che
ne "vede di tutti i colori" ed osserva umilmente
il lavoro del medico. Questi sanno davvero come
orientarti nella giungla degli ospedali, perché
sono realmente il tramite fra medico e paziente
e fra istituzione ospedaliera e pubblico. Non a
caso gli infermieri hanno il più alto rischio
di burnout.
E' come si fa a conoscere bene "un certo campo"?
bhe, con studio ed esperienza... e questi ti portano
a conoscere i limiti di ciò che fai. Altra cosa molto
importanti in tutte le altre professioni di aiuto è
proprio conoscere i "limiti". Non nel senso della
crescita personale "i limiti al tuo potere" ma nel
senso dei "confini della professione". Un medico
di base non si metterebbe mai a fare un'operazione
nel suo studio senza averne le competenze, a
meno che non sia un ciarlatano improvvisato.
Così un'infermiere, seppur molto competente non
si metterebbe mai a fare operazini chirugiche...
attenzione non dico che non sarebbero in grado di
farlo, ma che nel tempo hanno compreso che il
rispetto di certi limiti li salvaguarda non solo ad
un livello legale ma soprattutto personale. Questo
lo vedi in qualsiasi altra professione...immagina
di essere un barista loquace, a cui piace molto
parlare ed ascoltare i problemi dei suoi clienti.
E' chiaro che se questo barista è molto ficcanaso
o gioca a fare lo psicologo, prima o poi si troverà
delle "gatte da pelare". Nel senso che non avrà più
davanti dei semplici clienti del bar, ma delle
persone che non vedono l'ora di vomitargli addosso
i loro problemi. Questo può portare in burnout
qualsiasi barista navigato, che non abbia appreso
questo concetto di "limite personale" che per noi
è di vitale importanza.
Il "barista navigato" ha appreso sulla propria pelle
l'importanza di non sforare certi limiti, pena una
"rottura di palle infinita ogni volta che entra Tizio
o Caio". Ma lo stesso vale per ogni lavoro che
abbia una relazione con il pubblico, dove è facile
sforare certi limiti e farsi "esaurire". Ma a
differenza di tutte queste professioni, quelle di
aiuto viaggiano su un doppio binario dove
esiste il pericolo di "fare peggio"...
...se un barista "frustra" un cliente dicendo "la
cosa sbagliata" non ci sono grossi pericoli, mentre
se lo fa un coach le cose sono diverse. Così come
uno psicologo, infermiere ed un medico, sono tutti
pericolosamente iatrogeni... cioè possono facilitare
la comparsa di una malattia o peggiorare quella in
corso. Ti vedo già, "caro coach" a pensare "si ma
noi non tocchiamo certi argomenti, si ma noi non
ci occupiamo di pazzi, si ma noi...
... mi dispiace dirti che sia io che te lavoriamo con la
stessa materia "la mente umana"... e sia io che te
abbiamo difficoltà a comprenderla a tutto tondo.
Pensare che si lavori solo per il bene del cliente è
pura utopia, nel senso che le nostre azioni possono
anche essere iatrogene. Se non si accetta questo
tipo di responsabilità nessuna professione diventa
realmente d'aiuto.
Molti giovani colleghi tentano di difendersi da
questi due ostacoli (burnout e danno iatrogeno)
attraverso il "distacco tecnico". In altre parole
utilizzando le tecniche per allontanare la cosa
più importante "la relazione". Ma si tratta di una
pura utopia, le persone non sono inanimate ma
anzi, rispondono in modo intelligente e, cosa
non sorprendente, ci influenzano a loro volta.
La famosa affermazione "Io gli do gli strumenti
poi è lui che deve arrangiarsi" tipica del mondo
del coaching è anch'essa una bella favoletta!
Infatti dare "istruzioni di processo" non è
diverso da leggere un libro. Aiutare la gente
non significa fargli una "lezioncina" (anche se
a volte può essere utile) ma significa mettersi
a disposizione a 360 gradi in quanto persone
e professionisti.
Il futuro non è nella tecnica ma nella relazione!
Tieni a mente queste parole se lavori nel mio
campo e fammi sapere cosa ne pensi di questo
semi-delirio professionale.
A presto
Genna