Quando sente il rumore della porta chiudersi alle sue spalle, la notte si staglia sul suo viso, imprimendo sulla sua pelle l’odore tiepido di un’estate morente,pervasa dal brivo freddo di un inverno sempre più vicino. Insipira forte e si dirige verso la macchina. Compie quei gesti- mettersi la cintura,inserire la chiave,sistemare lo specchietto- meccanicamente, come meccanicamente guiderà per quelle strade che conosce perfettamente. Si accende la macchina, si spegne la mente. Torna a casa, immersa nel deserto dell’ una di notte, di una città stupendamente vuota.
Si, sta tornando a casa. Ma se vai verso qualcosa ti stai anche allontanando da qualcosa d’altro.
Gira a destra, poi a sinistra,si ferma allo stop,gira,procede sempre dritta per quella strada stretta. In quei primi minuti di viaggio non incontra mai nessuno, lo sa. Sfrutta quel momento per mettersi comoda, per distaccarsi dal suo corpo ipegnato a guidare,per lasciar vagare i suoi occhi tra le strade calpestate migliaia di volte.
La prima persona che incontra è la ragazza con il cane. Non la incontra sempre, ma abbastanza spesso da ritenerla una frequentatrice abituale delle sue strade. Cammina spedita, il guinzaglio in una mano,il telefono nell’altra. Sembra sempre scocciata. Magari innervosita dal dover uscire in piena notte per i bisogni del cane? No.Lancia occhiate frenetiche al cellulare. Con il tempo,osservandola pochi secondi a notte dal finestrino dell’auto,aveva capito che non era il cane a costringerla ad uscire a quell’ora,ma la ragazza scocciata a costringere il cane. Era l’immobilità dell’attesa a spingerla a camminare nella notte. Aspettava una chiamata che non arrivava mai o che arrivava sempre troppo tardi?
Schiaccia la frizione,solleva il piede dall’acceleratore,le basta sfiorare delicatamente il cambio per ingranare la quarta.
In quel punto della strada cerca di accellerare sempre un po’. Ma il suo occhio,seppure appesantito dalla stanchezza, sa dove guardare. Le luci provenienti dall’insegna dall’agezia immobiliare,quasi l’accecano. Le piaceva entrare in casa d’altri,calpestare il parquet scricchiolante non suo, criticare cucine dove magari non avrebbe mai cucinato. Le piaceva perchè in mezzo a case d’altri avrebbe trovato la sua,la loro. Voleva quella casa, il desiderio le bruciava quanto i suoi occhi che continuavano a fissare le luci dell’agenzia anche nello specchietto retrovisore.
Ma non voleva pensarci. Stava arrivando il suo punto preferito, l’incrocio. Quando non era troppo stanca cercava di prendere il semaforo rosso, in modo da poter sbirciare almeno per qualche secondo,nelle finestre di quelle casa abbandonata. Sin da piccola si era domandata come un edificio simile potesse esistere ancora nel mezzo della città. Palazzi moderni crescevano accanto ad essa,strade sempre più trafficate le sfrecciavano accanto senza curarsi di tanta bellezza. Cupa,enorme,fatta di piccoli mattoncini logarati dal tempo. Disabitata la era sicuramente,ad indicarlo anche il massiccio catenaccio che chiudeva il cancello in ferro battutto. Si,perchè non solo a pochi chilometri dal centro si ergeva,sfidando il tempo e le mode,questa villa di campagna,ma c’era,attorno ad essa, un splendido giardino,pieno di alberi cupi come la casa,appesantiti ed ingrgiti dallo stesso tempo. Ogni volta che lo vedevo non poteva far a meno di domandarsi: se la casa è disabitata da chissà quanto tempo,come fa l’erba ad essere sempre così perfettamente curata e tagliata?
Il verde la costringe ad ingranare la marcia e a svoltare a sinistra. I suoi occhi sono già proiettati in avanti dove sa che troverà il vecchietto. Non fa ancora troppo freddo e lui ci sarà. C’è sempre. Compie piccoli passi,così brevi che sembra restare fermo sempre nello stesso punto. Lo trova sempre lì,nei pressi di quell’attraversamento pedonale segnalato da cartelli e lucine. Sembrano quasi voler richiamare l’attenzione sul vecchietto. Ha impigato numerose notti,milioni di secondi attraveso il vetro del finestrino,per capire cosa stesse facendo l’anziano nella sua immobile camminata, sempre in quel punto. Lo capì in una notte di piggia fine, in cui lui non c’era,in cui lei lo cercò più del solito facendo balzare il suo sguardo da un angolo all’ altro,fino a posarsi,stupido,su di un mazzo di fiori. La pioggia fine cadeva su quiei colori di plastica,lasciati accanto ad una piccola foto appesa al muro di una casa. Non avevo bisogno di avvicinarsi e guardarla. Si immaginava il viso dolce di una donna illuminato da un sorriso. Non erano strisce pedonali. Era una tomba.
Ora le bastava andare dritto, le mani appena appoggiate al volante. Passa davanti al supermercato, alla fermata dell”autobus dove aspettava il tram per andare a scuola (le sembrava passato un secolo!), evita la buca, stacca leggermente e quasi involontarimente il piede dall’acceleratore. E lo vede. Le viene quasi da sorridere, le piacerebbe tanto sorridere a quello sconosciuto. Le prime volte che lo incontrava in quelli notti di viaggio ne aveva quasi paura. La pelle scura mischiava i suoi contorni con quelli del buio, in sella alla bicicletta aspetteva, fermo esattamente nello stesso punto,parlando al telefono. Pensava fosse uno spacciatore. E quando i suoi occhi incontrarono per la prima volta,quasi per caso,quasi per errore, quelli del ragazzo si pentì profondamente di quel pensiero. In quegli occhi vide il suo stesso sguardo. Vide il desiderio,l’ansia dell’attesa,il brivido che procura il pensiero di quel corpo nudo. Tutte le notti nè lui nè lei mancavano il loro appuntamento, si guardavano, entrambi consapevoli di guardare nient’altro che se stessi. Quegli occhi azzurrissimi. Quegli occhi bui. Identiciti.
E mentre lo sorpassava,girando a destra,si immaginava quegli occhi guardare in alto,verso il palazzo di fronte,proprio in quella finestra. Nelle orecchie il suono di quella risata innocente e negli occhi l’ombra del corpo di lei che appariva a quella finestra,ignaro di essere osservato.
L’ultima svolta a sinistra. Gira la chiave e il motore si spegne. Riprende coscienza di sè. La radio suona ciò che lei vuole sentire,decide di aspettare la fine della canzone. Si guarda allo specchio: è stanca, il trucco sbavato, il capelli scompigliati. Si domanda cosa gli abitanti delle sue notti vedano in lei,in quella ragazza che corre per le strade,indossando una tuta con le stelline rosa e delle occhiaie profonde. Si domanda se invece che i capelli arruffatti non vedano le mani di lui stringerle il viso,affondando le dita in quel morbido biondo, se vedano il suo corpo,sotto la tuta,ancora bagnato del suo sudore,ancora tiepido di quel piacere. Si chiede se la ragazza con il cane,se il suo cane,se la casa,se il vecchietto,se il ragazzo vedano solo quegli occhi contornati di nero e quelle labbra nude senza rossetto. O se vedano il pensiero di lui nel suo sguardo assonnato e l’impronta di quell’ultimo bacio rubato sulla sua bocca.
V.