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Di nuovo, dopo quella del Golfo, dopo il Kossovo, mentre ancora la stiamo facendo in Afganistan.
Ed io mi trovo nudo di fronte alle mie contraddizioni. Fino ad ieri parlavo ad alta voce della necessità di fermare Gheddafi, di quanto tempo stavamo perdendo invece di aiutare i ribelli, il popolo libico che si stava rivolgendo contro il regime.
E ora. La mia testa mi dice che ci sono mille ragioni per fare questa guerra. Ma il mio stomaco, l’intestino, ogni fibra dei miei muscoli si ribella a questa idea. Gheddafi è un dittatore. Uccide il suo stesso popolo. Un grande vento di rinnovamento sta spazzando il nord dell’Africa, dall’Atlantico fino al Golfo Persico. Far cadere il Rais è un dovere che serve a dare speranza a centinaia di milioni di arabi.
Ma dentro di me sento, fortissimo, l’urlo di quelli che la guerra la subiscono. Di coloro che non ne avranno alcun vantaggio. Di chi – e son sempre gli stessi – si prenderà le nostre bombe liberatorie. La guerra può avere tutte le ragioni del mondo ma poi si fa sulla pelle, nella carne viva dei poveri cristi.
Cosa importa il cambio di regime, cosa importa la speranza stessa di miglioramento a chi guarda la bomba dalla parte del detonatore? A quelli che cercano inutilmente riparo dalle schegge intelligenti di una guerra speditagli da diecimila metri d’altezza? A quelli che hanno il torto di essere nel posto sbagliato?
Poi lo so che ci sono almeno dieci buone ragioni, ma so anche che ognuna di esse nasce da errori, da connivenze, da interessi inconfessati. So che si sarebbe potuto agire prima e meglio per evitare di arrivare a questo punto. Noi italiani, poi! Con che coraggio, con quale dignità ci proponiamo ora come combattenti , addirittura come guida delle truppe da gettare nella mischia. Noi che da sempre abbiamo coperto Gheddafi, che lo abbiamo accolto come socio nei nostri Consigli di Amministrazione, che lo abbiamo blandito fino all’estremo del ridicolo. Noi che – solo sei mesi fa! – gli abbiamo messo graziosamente a disposizione le più avvenenti Escort di Stato!
No, non posso proprio dare il mio consenso. Not in my name, come si usa dire.
A chi ne abbia voglia e condivide con me questi sentimenti, regalo l’ascolto di una canzone di Fabrizio De Andrè. Lui ne ha scritte tante contro la guerra. Oggi voglio proporvene una delle meno conosciute “Sidun”. Forse perché è in dialetto. Ma per me è di una forza sconvolgente. Buon ascolto.
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