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Un altro pezzo di quella stanca retorica pauperista italiana, che sfocia automaticamente nell’essere anti-Israele a prescindere (della quale si è parlato e su cui non vale la pena tornare), prende fiato nell’anti-americanismo. Gli interessati nostrani – tralasciando quelli internazionali – sono individuabili in un ampio arco che va dalla sinistra dei centri sociali, che dà manforte al terzomondismo arabo, fino alla parte opposta, quella dei vari Casapound eccetera, che vedono nel nazionalismo palestinese un avamposto contro “il capitalismo giudaico-massonico che domina il mondo” – sì, a questi, da poco, si sono aggiunti anche quelli del Movimento 5 Stelle, con tematiche analoghe, ma senza rendersene conto (per incoscienza). In mezzo, ci sono i vari Vendola (ravvivato dopo la debacle), i reduci dalemiani, gli eredi sghembi di Craxi, e qualche andreottiano – che tanto in Italia stanno ovunque.
Sull’accoppiata Israele-Stati Uniti c’è sempre da attaccare, anche quando non ce n’è davvero bisogno – costatazione che non punta a giustificare niente di diverso dalle vicende correnti, soprattutto l’uso eccessivo della forza, spesso non funzionale, di ebrei e americani.
Ma stavolta, se si fosse stati davvero onesti, almeno intellettualmente, avremmo dovuto ammettere – o per lo meno osservare – che il comportamento di Obama non è stato dei peggiori, o almeno è stato il “quel poco che poteva fare”.
Premesso che il fallimento del processo di pace tra israeliani e palestinesi, questione data quasi per risolta ad inizio mandato obamamiano, è a tutti gli effetti un altro capitolo di quel fallimento dell’attuale Amministrazione negli affari esteri, occorre fermarsi e guardare i fatti. Senza tornare troppo indietro – anche perché le situazioni tenderebbero a peggiorare – in questa nuova guerra tra Israele e Hamas, Obama non ha colpe – o almeno non ne ha di grosse.
Tralasciando per un attimo le dinamiche da bar e da tifo sportivo, lucidamente si può dire che il tutto è cominciato con il rapimento dei tre ragazzini ebrei che vivevano in un insediamento in Cisgiordania, e continuato poi con una serie enorme di lanci di razzi contro i civili delle città israeliane (l’idea, di fondo, di Hamas e degli altri gruppi combattenti nella Striscia, è uccidere tutti gli ebrei, ma è scomodo dirlo per quelli che si nutrono della retorica sopracitata e soprattutto perché in mezzo c’è la parola “ebrei” che fa paura per ovvie ragioni storiche). Israele si è difeso, e come al solito ha esagerato – forse, poi trovarcisi è del tutto diverso – ma sul chi ha voluto la violenza, non ci sono dubbi.
Nel corso dei rapidi sviluppi di questa decina di giorni, Obama ha sempre chiesto di mantenere la calma all’alleato Netanyahu – che sebbene sia un primo ministro di destra, va detto che non ha ascoltato da subito i falchi del proprio partito, mantenendo per il più possibile il controllo della situazione.
Addirittura martedì, quando ormai gli Stati Uniti dovevano essere venuti a conoscenza della riunione del Gabinetto di emergenza israeliano che autorizzava l’attacco di terra, Obama si proponeva come mediatore diretto, annunciando qualsiasi sforzo per avviare il processo di pace.
Qualcuno potrà dire che si trattava solo di chiacchiere, con il fine di smarcarsi dai fatti e uscire pulito dal pantano che rappresentavano; come dire, un’altra applicazione di quel pessimo realismo che ha guidato tutte le sue scelte in politica estera. Forse, ma c’è un dettaglio che molti hanno interpretato in un certo modo, deviati e miopi per colpa di quella solita retorica (di cui ci si sta stancando anche in questo pezzo), e senza un minimo di più largo respiro. Perché proprio martedì il Senato americano approvava il finanziamento di aiuti economici a Israele per mantenere attivo l’Iron Dome – il sistema missilistico di difesa, costa infatti qualcosa come 20 mila dollari a lancio.
L’aiuto economico americano, non è un aiuto militare, ma anzi, all’opposto, è un invito a mantenere la calma, a limitare l’escalation, a bloccare ogni altro genere di azione. Perché? Perché Washington sapeva bene, che Israele non avrebbe tollerato a lungo il lancio di missili da parte degli islamisti della Striscia, e sapeva bene che in quella scarsa tolleranza rientrava anche una mera questione economica: “quelli hanno 11 mila missili, quanto ci costa continuare a difenderci con il Dome, piuttosto che andare là e provare a stanarli?”, potrebbe essere questo, tagliato con l’accetta, il ragionamento israeliano. Obama, stavolta, ha fornito un aiuto concreto: “vi diamo una mano a difendervi, basta che non invadiate Gaza di nuovo” – poi il fatto che non sia riuscito a riportare i suoi frutti, è un altro discorso (e forse c’entra la debolezza della figura di Obama e la perdita di autorevolezza per varie ragioni, per esempio i colloqui con l’Iran, la voce non più ascoltata in Medio Oriente, e via dicendo).
La cronaca ci racconta che Obama ha fallito di nuovo; di nuovo il suo piano è stato rivoltato dai fatti – e (forse) adesso il ruolo dell’America in questo pezzo di storia che si sta svolgendo, è nelle mani di Kerry, non certo una scheggia nelle relazioni, e delle mediazioni ai negoziati, che sono però guidati dall’Egitto.
Non c’è dubbio, poi, che dei tre interventi militari su Gaza visti negli ultimi anni (gli altri due sono stati nel 2009, e nel 2012), questo è quello che in cui il coinvolgimento di attori esterni è minore – e conseguentemente, dove Israele ha agito maggiormente di propria iniziativa. Netanyahu adesso va avanti senza ascoltare nessuno, per primo Ob
ama, che d’altronde non poteva condannare completamente lo storico alleato.
L’apparente distacco tra Obama e quello che succede a Gaza, è dovuto al fatto che il presidente non ha armi a proprio favore: stavolta, differentemente da due anni fa, in Egitto non c’è Morsi, leader rispettatissimo da Hamas della madre-Fratellanza (e appoggiato al momento della Primavera araba dagli USA), con il quale ingaggiare la spola Cairo-Tel Aviv che aveva portato la Clinton a concludere il cessate il fuoco. Stavolta la mediazione di Sisi ha un obiettivo e una mira diversi: Sisi non è l’interlocutore favorito da Hamas, anzi punta ad isolare il partito/milizia nel più profondo dei tunnel scavati a Gaza.
Con i rapporti con Netanyahu abbastanza freddi, finanziare la difesa Iron Dome per fermare l’attacco, era l’unica strategia in mano a Obama. L’ha attuata, ma con scarsi risultati: è una colpa certo, ma non si può accusare l’America di aver voluto l’invasione della Striscia.
Update del 20 luglio: è uscito un fuorionda del Segretario di Stato John Kerry. Durante la pausa pubblicitaria di un'intervista a Fox, credendo che i microfoni fossero spenti, Kerry ha commentato al telefono con un suo collaboratore: "Altro che operazione di precisione. L'escalation è significativa. Dobbiamo andare lì. Dobbiamo andare lì stasera. E' pazzesco stare seduti". Chiara conferma di quello che si scriveva sopra: l'America capisce la situazione, ma non ha armi - e non le ha perché paga il realismo, lo "stare seduti" del disimpegno obamiano di questi ultimi anni. Ma che volete, d'altronde Bush era guerrafondaio e Obama Nobel per la Pace.
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