Grazie a Michel “Away” Langevin per le immagini.
La scusa ufficiale per questo articolo è la ristampa, a opera della Tridroid Records, dell’ultimo album dei Voivod, quel Target Earth seguito alla scomparsa del chitarrista Denis D’Amour (Piggy) e ai due album realizzati con materiale demo da lui registrato (Katorz e Infini). Il motivo reale è che non ci eravamo ancora addentrati nelle spire di quella che è a tutti gli effetti una delle band più influenti e originali dell’intera storia del metal. Sin dal loro debutto ai tempi della prima ondata d’oro del thrash, per quella Metal Blade che del movimento è stata culla e pigmalione, è stato chiaro come i canadesi non fossero certo uno dei tanti nomi gettatisi nella mischia, quanto una realtà a sé, contraddistinta da una visione unica e spesso avanti rispetto ai “contendenti”. Già l’ascolto della doppietta iniziale War And Pain/ Rrröööaaarrr provocava reazioni oscillanti tra lo sbalordito e il rapito: di certo non si trattava di semplice thrash, ma di una miscela che univa velocità, rabbia e nichilismo a tal punto da innalzare ulteriormente l’asticella dell’estremismo sonoro, il tutto senza perdere di vista un’ambiziosa ricerca in grado di unire musica, testi e immagini (opera del batterista Michel “Away” Langevin). In realtà, i nomi li avremmo imparati parecchio dopo, perché a quel tempo i Voivod, messaggeri di “Korgull The Exterminator” che invadevano la Terra al grido di “Fuck Off and Die”, erano solo Snake, Piggy, Blacky e Away, punto e a capo. Si passavano le ore scolastiche a cercare di riprodurne logo e grafiche, affascinati dall’idea di questi barbari venuti dallo spazio per cancellare ogni forma scontata o codificata di metal, appartenenti a quello che a partire dal terzo Killing Technology sarebbe diventato un vero e proprio universo parallelo, una saga fantascientifica non lineare e costruita su episodi apparentemente scollegati, che non ci avrebbe mai più abbandonato.
Con Dimension Hatröss e il successivo Nothingface le cose si erano fatte sempre più interessanti e la band rischiava davvero di fare il classico botto, grazie anche alla continua evoluzione di un suono che, da sgraziato e cacofonico assalto votato al culto di Venom, Motörhead e Discharge alla luce delle moderne derive thrash, si stava rivelando una stupenda ibridazione tra metal estremo e prog, con una forte vena psichedelica e il dichiarato amore per i Pink Floyd (“Astronomy Domine” e “The Nile Song”, dal successivo The Outer Limits, sono lì a ribadirlo con forza). Con Angel Rat, purtroppo, qualcosa aveva cominciato a scricchiolare e nel giro di pochi anni i Voivod avrebbero perso sia il bassista Blacky che il cantante Snake, andatosene dopo il già citato The Outer Limits. In quel momento, gran parte delle band avrebbe gettato forse la spugna, ma i Voivod erano lì a confermare quella loro natura unica e quella tenacia che ne hanno sempre segnato la storia. Ecco, quindi, la decisione di proseguire come trio, con l’ingresso di Eric Forrest (basso e voce) e, soprattutto, due dischi come Negatron e Phobos, in grado di incupire e radicalizzare il sound, per rimettersi in gioco e portare tutto a un nuovo livello. I due album riuscirono a rimettere i Voivod in carreggiata, ma anche questa volta sarebbe giunto il momento della brusca frenata, con il cantante/bassista coinvolto in un incidente quasi mortale.
Siamo già nel nuovo millennio, il guerriero spaziale è di nuovo ai box, ma dà un colpo di reni e chiama a sé il vecchio singer Snake e un Jason Newsted che tenta di recuperare il tempo perduto alla corte dei Metallica, rituffandosi in un progetto che lo coinvolga e appassioni come ai bei tempi. Il 2003 è l’anno dell’album omonimo e il pubblico plaude alla rinascita della band, il disco colpisce nel segno e i Voivod sembrano più determinati che mai a restare saldamente in sella… Ciò che è accaduto poi lo abbiamo già sintetizzato in apertura e preferiremmo evitare di tornarci, anche perché la perdita di Piggy ha aperto una ferita impossibile da rimarginare per chi ha seguito e amato la band sin dagli inizi. Con Infini i giochi sembravano davvero chiusi una volta per tutte, almeno fino all’intervento di Daniel Mongrain (Martyr, Gorguts, Capharnaum), da sempre fan di Denis D’Amour, chiamato per unirsi ai tre guerrieri originali (nel frattempo anche Blacky è tornato all’ovile e ha sostituito Newsted) in occasione di alcune date live.
Siamo così finalmente alla scusa ufficiale, che altro non è se non l’ennesima rinascita dei Voivod dalle ceneri, l’ennesimo segno di vita da parte di una band troppo spesso data per morta. Target Earth è, inutile dirlo, un disco in cui i Voivod celebrano loro stessi, prendono le misure del nuovo entrato e onorano come meglio possono il compagno scomparso. Ma non è un disco manierista o privo di un suo perché: in generale rende giustizia al nome, così da togliere di mezzo ogni possibile dubbio sulla necessità di un nuovo capitolo della saga. Target Earth, poi, dimostra come l’ingresso di Mongrain sia stata la scelta giusta per tentare di procedere sulla rotta delineata, perché il chitarrista si dimostra in grado di seguire le orme del suo illustre predecessore senza sfigurare o risultarne una pallida imitazione, anche se non avrebbe guastato un po’ più di coraggio nell’andare fuori traccia e sorprendere. Del resto, l’eredità era pesante e non ci si poteva aspettare – né sarebbe stato giusto volerlo – un taglio netto con quella che era l’anima pulsante e il motore primo dei canadesi. Stiamo parlando di un ulteriore tassello di una discografia che non presenta veri passi falsi e merita la stessa considerazione di qualsiasi altro lavoro a firma Voivod, non tanto come atto d’amore o riconoscimento alla carriera, ma proprio perché lavoro godibile e ben costruito, soprattutto in grado di mantenere viva la fiamma del culto e aprire un nuovo spiraglio sul futuro. La scrittura guarda dritta al periodo a cavallo tra Ottanta e Novanta, quindi alla doppietta Dimension Hatröss/Nothingface, il che di certo non guasta e permette di giocare anche sull’effetto che il risentire certe atmosfere provoca nel fan di lungo corso. In breve, si tratta di un solido album a firma Voivod, che merita senza dubbio di far parte della collezione di ogni fan che si rispetti e che provoca anche qualche brivido lungo la schiena. Cosa accadrà ora che Blacky è nuovamente uscito dai ranghi e un nuovo bassista (Dominique Laroche) è entrato a corte è tutto da scrivere, noi ci godiamo la ristampa e ringraziamo la Tridroid per l’occasione fornita. Lunga vita al Voivoda!