Gli esclusi dalla società nella mostra «Homeless» di Lee Jeffries
di Gaetano Vallini
Dinanzi alle immagini della mostra «Homeless» del fotografo inglese Lee Jeffries viene da pensare a Papa Francesco. Quei primi piani di volti invecchiati troppo in fretta, devastati da alcol e droga, profondamente segnati da una vita di stenti, priva di calore, trascorsa per lo più in strada, sembrano infatti richiamare le parole di un Pontefice che non si stanca di puntare l’attenzione sulle periferie esistenziali, che invita a chinarsi sui corpi dei poveri, sulle piaghe degli emarginati perché sono i corpi e le piaghe di Cristo. Sono i volti di senza fissa dimora, uomini e donne esclusi da quella società dello scarto — come la definisce il Papa — nella quale non c’è spazio per chi è improduttivo, anziano, malato, e che per questo diventa inutile, persino dannoso; quindi qualcosa di cui disfarsi, risultato di quella globalizzazione dell’indifferenza più volte denunciata in omelie e discorsi.Pubblicato solo in rete, dove ha peraltro ottenuto riconoscimenti e premi, lo straordinario lavoro di Jeffries viene ora presentato in prima mondiale al Museo di Roma in Trastevere fino al 12 gennaio 2014, nell’ambito della dodicesima edizione di Fotografia, Festival internazionale di Roma. Cinquanta scatti in bianco e nero senza didascalie, date e riferimenti geografici, perché i volti ritratti rivelano una sofferenza senza tempo e un disagio divenuto stile di vita al di là dei luoghi. Per raccontarli non servono parole. Ogni viso narra una storia, unica. Il quarantunenne di Manchester — approdato alla fotografia solo nel 2008, con inizi nel mondo dello sport — ha colto i suoi soggetti per le strade delle grandi città dell’Europa e degli Stati Uniti, da Londra a Parigi, da Roma a New York, da Miami a Los Angeles. Ma gli scatti non sono il frutto di incontri casuali. Casuale è stato solo il primo, nelle vie della capitale inglese, con una ragazza senza tetto a cui “ruba” una foto con un teleobiettivo. Ma nel farlo si accorge che c’è una distanza da colmare: lo spazio freddo e impersonale tra il soggetto e l’occhio del fotografo che non permette alcun rapporto. Jeffries decide allora di cambiare metodo — «ero alla ricerca di un incontro», sottolinea nel breve testo scritto per il catalogo — e antepone così la conoscenza di ciascuno dei personaggi all’urgenza del fotografare. La priorità non è più semplicemente documentare una condizione sociale di disagio, bensì stabilire un rapporto duraturo, quasi intimo, con le persone, per conoscerle, perché non fossero solo volti in una galleria di anonimi. Ed è solo grazie a questa empatia, unita a una sensibilità rispettosa, che i soggetti — uomini e donne, giovani e anziani, persino bambini — finiscono per concedersi generosamente al suo obiettivo. I ritratti di Jeffries diventano così immagine delle sue convinzioni sulla vita e della sua compassione per il mondo attraverso uno stile personalissimo, che si evidenzia nel particolare trattamento della luce e dell’ombra, nelle tonalità livide, così come nella semplice inquadratura frontale, spesso con sfondi monocromatici scuri. Uno stile che vuole esprimere l’intento etico dell’autore: «Urlare l’ingiustizia», con la speranza di «scattare un fotogramma che abbia alla fine il potere di influenzare. Di cambiare la percezione. Di rendere l’attenzione dello spettatore abbastanza forte per volere conoscere e fare di più». Perché «le persone al di fuori del nostro sistema sono dei sopravvissuti». La loro lotta per sopravvivere è tutta negli sguardi intensi, che catalizzano l’attenzione, e che in assenza di parole raccontano vite randagie e dolorose, e tuttavia dignitose. Sguardi che però non sembrano celare alcun odio; semmai risentimento; rammarico, forse, per ciò che non è stato, ma ancora di più nostalgia e qualche rimpianto. Quelli ritratti in «Homeless» sono i volti del disagio di oggi, anche se sembrano provenire dal passato. Perché guardandoli si ha come la sensazione di averli già visti, contemplati altrove. Un déjà-vu spiegato dal curatore della mostra Giovanni Cozzi, per il quale in questi scatti c’è «la stessa luce che affiorava dai volti dei peccatori, dei santi, degli uomini e delle donne del popolo dipinti o scolpiti nel marmo ai piedi della Divinità, sia essa Cristo o Madonna, da Caravaggio, Leonardo, Michelangelo, Bernini, e nelle opere più grandi dell’arte rinascimentale e barocca europea». Sicché, aggiunge, «più che di fotografia, è di arte sacra che si tratta. Ed è questo, ciò che resta della divina tragedia di Jeffries: il sacro, il senso vero dell’essere umano, troppo umano, nella discesa agli inferi e nella risalita al cielo». Del resto lo stesso autore sostiene che «sofferenza e spiritualità sono sinonimi» e che il suo scopo è «fare appello al senso di fede e all’umanità degli spettatori». Una sofferenza che si coglie nelle rughe, nelle cicatrici che solcano i volti, rese ancora più profonde da un nero marcato che fa risaltare la luce degli occhi. Il fotografo sa che gli occhi in un ritratto sono tutto, perché fanno trasparire le emozioni, gioie e dolori, speranze e delusioni. E allora ne fa il fulcro della sua personale narrazione. E se è vero il detto popolare «gli occhi sono lo specchio dell’anima», allora Jeffries prova addirittura a mostrarci l’anima delle persone ritratte. Anche in tal senso l’opera di Jeffries è in qualche modo iconografia religiosa. Perché, come ha scritto sul blog del fotografo un ammirato visitatore, l’artista «ha dato a queste persone qualcosa di più che la dignità personale. Ha dato ai loro occhi un bagliore che raffigura la trascendenza, uno spiraglio di luce alle porte dell’Eden, per così dire. La chiarezza nei loro occhi è impressionante da vedere, come se Dio fosse lì da qualche parte». E se non Dio, in quegli occhi ciascuno potrà comunque cogliere qualcosa, una verità. Forse, malgrado tutto, anche un bagliore di felicità. Una gioia che probabilmente ai più sfuggirà, ma che più d’ogni altra cosa interroga, imponendoci di riflettere sulle nostre vite, di guardare nel profondo di noi stessi. E di chiederci se non ci sia qualcosa di sbagliato in ciò che ci circonda. (©L'Osservatore Romano – 19 ottobre 2013)