Rappresentazione artistica di una nana bruna avvolta nel suo disco protoplanetario in rapida rotazione (crediti: NASA/JPL-Caltech)
Se d’estate basta un mozzicone da un finestrino per appiccare un incendio, accendere un fuoco in pieno inverno, con legna umida e vento gelido, è tutt’altro che semplice. Ebbene, accendere una stella è altrettanto complesso: il combustibile è una catasta di gas a forma di frisbee – il disco protoplanetario – che non solo ha una temperatura bassissima ma ruota pure a velocità molto elevata. Elevata al punto da impedire alla forza di gravità di far precipitare il materiale all’interno del disco, così da raggiungere una massa e una pressione sufficienti a innescare la fusione nucleare. Eppure, almeno ogni tanto, una stella si accende. Dunque ci dev’essere qualcosa in grado di frenare la rotazione del disco, di contrastarne il momento angolare. Ma cosa?
La teoria più comunemente accettata imputa il rallentamento della velocità di rotazione del disco protoplanetario alla presenza di forti campi magnetici. Un po’ come fanno quei truffatori che, per risparmiare sulla bolletta della luce, tentano di rallentare il disco dei vecchi contatori elettromeccanici appoggiandovi sopra una grossa calamita. Però c’è un problema: così come la calamita agisce solo su alcuni materiali, allo stesso modo, affinché il disco protoplanetario interagisca con i campi magnetici circostanti, i gas che lo compongono dovrebbero essere ionizzati, ovvero elettricamente carichi. Ma così non è, non almeno per quelle zone del disco protoplanetario in cui la temperatura è così bassa da impedire la ionizzazione.
Un meccanismo alternativo in grado di contrastare il momento angolare del disco viene ora ipotizzato, sulle pagine di Physical Review Letters, da un team di esperti in fluidodinamica dell’università di Berkeley. «Stando ai modelli attuali, poiché il gas presente nel disco è troppo freddo per interagire con i campi magnetici, il disco risulta essere alquanto stabile. Molte regioni sono stabili al punto da esser state chiamate dagli astronomi “zone morte”, e questo rende ancor più difficile comprendere come il disco possa destabilizzarsi e il materiale che lo forma collassare nella stella», dice il primo autore dello studio appena pubblicato, Philip Marcus.
Ma le variazioni di densità da un livello all’altro del disco, esattamente come avviene qui sulla Terra con le correnti oceaniche o con le grandi masse d’aria in movimento nell’atmosfera, possono innescare intense turbolenze a catena: enormi gorghi che a loro volta generano altri gorghi ancora più grandi. «Noi li chiamiamo affettuosamente “vortici zombie”», spiega Marcus, «perché nascono proprio dalle zone morte del disco protoplanetario, e le successive generazioni di vortici giganti attraversano quelle zone morte. Ebbene, i vortici zombie sono in grado di destabilizzare il gas orbitante, consentendogli così di precipitare sulla protostella e permettendo che il processo di formazione vada a buon fine».
Per saperne di più:
- Leggi su Physical Review Letters l’articolo “Three-Dimensional Vortices Generated by Self-Replication in Stably Stratified Rotating Shear Flows“, di Philip S. Marcus, Suyang Pei, Chung-Hsiang Jiang e Pedram Hassanzadeh
Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Malaspina