Le quattro volte in cui andai a fare delle esperienze di volontariato non avevo nulla. Quando partii per il Madagascar, nell’ottobre del 2001, non avevo nemmeno un lavoro; le scuole mi offrivano solo supplenze di pochi giorni, stavo a casa ad aspettare chiamate e fare niente.
Un giorno una coppia conosciuta preparandomi per andare a fare la mia prima esperienza di volontariato in Kenya, scrisse un’email collettiva: “C’è una missione in Madagascar, a Fianarantsoa, in cui sono rimaste solo tre suore a gestire tutto. Stanno cercando qualcuno che vada ad aiutarle. C’è qualcuno che può andare a dar loro una mano?”.
Mi offrii senza esitazione: quando qualcosa ti chiama, lo senti nella pancia.
Nel giro di un mese ero su un aereo diretto ad Antananarivo, con un biglietto pagato dalla coppia che mandò l’email: io non avevo un soldo. Le quattordici ore di volo che mi separavano dalla missione furono il mio primo viaggio aereo lungo, e quindi interminabile: visitai la toilette dell’aereo mille volte prima di atterrare, terrorizzata com’ero di finire in un paese sconosciutissimo, lontanissimo, bellissimo. Forse.
Non sapevo nulla del Madagascar: sapevo solo che una suora della provincia di Cuneo mi aspettava in una città dal nome impronunciabile.
Le piacerò? Sarà simpatica? Oppure acida come mille mele inacidite?
Partii con una valigia riempita all’inverosimile di regali donati dai sostenitori torinesi della missione. Allora non controllavano troppo il peso del bagaglio: le mele di Cuneo della famiglia di Suor Annamaria sbucavano da ogni dove mentre mettevo la valigia sul peso del bancone del check-in.
L’addetta mi guardò sbalordita mentre un paio di esse rotolavano a terra, e io a rincorrerle sul pavimento dell’aeroporto per rimetterle nella tasca dello zaino.
Dopo due giorni nella missione della capitale, le suore mi misero su un minivan che, dopo svariate soste pipì nella brousse - “Per questo abbiamo la gonna!”, mi disse una donna addentrandosi nella boscaglia, mentre io andavo alla ricerca di un cespuglio delle dimensioni di una collina per potermi tirare giù gli odiati pantaloni – mi portò a destinazione.
Trovai le tre suore – una argentina, una coreana e la superiora, ovvero la suora di Cuneo – che mi stavano aspettando a braccia aperte.
In occidente non siamo abituati ad essere accolti per ciò che siamo.Spesso siamo tesi perché pensiamo che chi ci aspetta sia pieno di aspettative.
E se non ci piacerà? Sarà simpatica, questa volontaria? O sarà acida come mille mele inacidite?
Allora indossiamo la nostra migliore maschera, pronti a lasciarla poi sul comodino dopo mesi, a volte anni.
Entrai in quella che sarebbe stata la mia camera da letto e il mio studio, e sulla scrivania trovai dei fiori, una piccola scultura in legno raffigurante una mano che sorreggeva un bimbo addormentato, e un biglietto:
“Benvenuta, Elisabetta. Ti accogliamo così come sei”.
La sera stessa lasciai la mia maschera sul comodino. E lì restò per sempre.
In due mesi:
1. Allestii un laboratorio di conversazione inglese ed uno di informatica e inglese per bambini.
2. Mi immersi totalmente in una cultura a me sconosciuta.
3. Imparai un po’ di francese.
4. Toccai con mano la sofferenza e la povertà assoluta.
5. Capii il vero significato del verbo “Donarsi”.
6. Compresi l’importanza del silenzio.
Non partiamo mai leggeri: ci portiamo sempre appresso ciò che siamo. Il nostro Io pesa.
Una domenica pomeriggio Suor Annamaria, vedendomi sempre un po’ tesa, mi spedì nella solitudine del giardino della missione e mi suggerì di fare questo esercizio: “Siediti su una roccia, guarda la natura, passa in rassegna tutto ciò che hai e tutte le persone che conosci, e dì “GRAZIE”.
Fai solo questo.
Ringrazia.
Scettica (“Credo in Dio, io, ma mica in queste baggianate da cattolici!”), obbedii. “Va bene, io sto lì mezz’oretta, guardo il cielo, faccio finta di ringraziare, e poi torno in camera mia”.
Per tornare, tornai.
Dopo tre ore.
Rigenerata.
Nei confronti delle religioni sono scettica. Ciò che ho visto fare in quella missione, però, mi ha fatto capire che non conta ciò in cui credi: conta lo spirito con cui ti doni. Quelle suore non davano tutto solamente alle studentesse che frequentavano la loro scuola, e le loro famiglie. Hanno dato tutto anche a me.
Questo mi permise di tornare che ero un’altra persona, molto diversa da quella che era partita, con le sue angoscie e le mele nello zaino.
L’umiltà e la bontà di Suor Annamaria mi avevano sconvolto la vita.
Non tornai cattolica convinta, nè praticante. Tornai però con una fede nuova: avevo imparato che di qualunque cosa il nostro cuore abbia bisogno, basta chiedere. E una Forza Superiore si mette in moto per farci avere ciò che chiediamo.
C’è però un presupposto: bisogna avere il cuore puro. E un cuore diventa puro solo attraverso l’amore incondizionato.
Più dai, più ricevi. Doni cento, ricevi mille. Non ci credete? E allora come mai, dopo tutte queste esperienze, fino ad oggi ho sempre ricevuto tutto ciò che ho chiesto, e anche di più?
Quei due mesi passarono veloci quanto uno stormo di rondini in volo.
Giunsi all’aeroporto di Antananarivo con la valigia più carica di quando ero partita: buste da spedire, regali da donare, manghi, avocado e banane mignon. La suora che mi accompagnava a fare il check-in, trascinando con me 35 kg di bagaglio, mi disse: “Tu non ti preoccupare”.
Porse il mio biglietto alla signorina in uniforme e, nel momento in cui appoggiammo la valigia sul peso, disse: “Maria Aiuto dei Cristiani”.
Ed io, che fino ad allora non avevo mai pregato, nè mi ero mai abbassata a tali credenze, mi sorpresi a rispondere: “Prega per noi”.
Le valigie passarono.
Quando ti senti perso, puoi ritrovarti nel metterti a servizio di chi ha bisogno. (B.Pozzo)Tornai a casa per Natale.
Senza soldi.
Senza lavoro.
E i primi di gennaio una scuola mi chiamò per una supplenza di cinque mesi.
GRAZIE!