- vedendo Lee agghindato di tunica rossa con la testa opportunamente rasata e vedendo il suo modo di muoversi eterno ed impercettibile, l’ambiente urbano che fa da contorno appare ancora più sclerotico di quanto lo è nei fatti: il quasi-immobilismo del monaco risalta nettamente in un contesto iper-veloce dove all’incessante formicolare delle persone sui marciapiedi si accompagna il rumoroso via vai delle auto e dei bus lungo le arterie di cemento. Sembra che il regista taiwanese voglia mettere in scena l’annosa questione tra spirito e materia segnando lo scarto che in modo irrimediabile divide tali istanze: quello di vivere nella frenesia metropolitana e quello di riuscire a trovare quiete nel suddetto mondo fagocitante e frenetico.
- siccome in Walker rincontriamo per l’ennesima volta (e sempre con grande piacere) il buon Kang-sheng, non è affatto errato pensare all’identificazione del regista con l’attore di riferimento, quindi, in uno slancio traslativo, potrebbe non essere una boutade intendere Lee come la personificazione del cinema di Tsai Ming-liang, d’altronde è risaputo che la settima arte di questo autore non è sintonizzata sulle normali frequenze cinematografiche e molti, di fronte alle sue interminabili sequenze di assoluto silenzio, avranno gettato la spugna additandolo come autore “noioso” e degno, al massimo, dell’indifferenza, la stessa che i passanti riservano al religioso. A Tsai però di accaparrarsi l’epidermica attenzione spettatoriale interessa poco, lui continua per il suo erto sentiero, cammina, spostando ogni volta il punto limite di un cinema la cui esistenza sulla carta parrebbe impossibile, poi si ferma, magari solo per morsicare un panino, e dopo ricomincia a macinare chilometri: prossima tappa Diary of a Young Boy (2013), già adesso non vediamo l’ora.