A Negress of Noteworthy Talent
È così che Kara Walker parla di se stessa, nella sua incarnazione artistica: usando una parola indigesta, scorretta, che nessun altro se non lei potrebbe usare. Questa artista americana ormai universalmente riconosciuta – e ha solo 41 anni – si muove infatti sul confine tra ciò che bisogna dire e quel che non si osa, a suo modo incerta tra la tentazione di lasciarsi identificare come icona antirazzista e la necessità di mettersi in discussione.
Gone, An Historical Account of a Civil War...* (1994)
Kara Walker è afroamericana e si occupa di razzismo; eppure la comunità black americana ha avuto qualcosa da ridire sul fatto che la sua arte sia stata apprezzata in primo luogo dai bianchi. È femmina e lavora sulle questioni di genere, di emancipazione, sui rapporti di potere tra uomo e donna, ma non può non ricordare che «per lungo tempo il femminismo ha ignorato le donne nere.
Quando è cominciata la battaglia per il diritto al lavoro – non quella attuale per la parificazione dei compensi, proprio la prima lotta perché alle donne fosse permesso di lavorare fuori casa – le donne di colore in realtà stavano lavorando già da secoli: lavoravano per le donne bianche».
Cut (1998)
Nell'arte in bianco e nero della Walker, il torto e la ragione si cercano nelle sfumature. Ci sono solo antieroi e antieroine, e la comprensione della verità filtra attraverso le ombre.
Ora le sue grandi silhouette di carta ritagliata a mano che riproducono scene del l'America prebellica (dove per guerra si intende la Guerra Civile americana) sono in mostra alla Fondazione Merz di Torino, mentre una serie intensa di progetti collaterali, convegni, workshop e proiezioni, presenta per la prima volta al grande pubblico italiano la sua complessa personalità artistica.
Se i riferimenti storici e letterari sono prevalentemente sette e ottocenteschi, la sua tecnica di elezione è a sua volta antimoderna: grandi sagome vengono ritagliate a mano lungo le linee di un disegno tracciato su carta nera, e poi applicate alla parete. Il risultato è un lungo "ciclorama" di profili neri su bianco (o bianchi su nero), in cui la piacevolezza del disegno cela per un attimo allo sguardo la crudezza di ciò che accade.
Camptown Ladies by Kara Walker
Schiavitù, stupri, sodomie, maternità sanguinolente, immagini di tortura, degradazione o sottomissione, sfruttamento del lavoro e del corpo dei bambini, su sfondi agresti che nascondono in realtà i paesaggi delle piantagioni di cotone.
Tutta l'evoluzione del lavoro della Walker, che in questo progetto curato da Olga Gambari si articola in disegni, incisioni, installazioni, video, viene da qui, ma insiste per andare oltre: «La "blackness" e la "womanness" sono per me due direzioni, non due argomenti», spiega l'artista, che si ferma a lungo in Italia per partecipare personalmente al ciclo di eventi.
Darkytown Rebellion* (2001)
La Walker tiene moltissimo, forse troppo, a non essere classificata come artista afroamericana, o come artista donna, e sembra quasi sofferente nel suo tentativo di sottrarsi agli stessi stereotipi che esplora: «Io non parlo per tutte le donne, ma per me, e anche quello a fatica. L'unica chiave è la mia psiche, non c'è una chiave femminista», insiste. La sua fatica è quella di chi si ritrova suo malgrado in bilico tra la voce autobiografica e quella collettiva. Uno dei lavori più interessanti e significativi della mostra è infatti un'installazione di figurine in acciaio ritagliato al laser che sembra staccare dal muro i suoi disegni:
Insurrection! Our Tools Were Rudimentary But We Pressed On (2002)
«Le sculture ritagliate sono personaggi bloccati tra le due e le tre dimensioni: non sono più schiacciate dal muro ma ancora non sono tridimensionali, vogliono uscire e non riescono»; mentre poco più in là c'è una parete di silhouette bianche su fondo nero, in origine pensate come storyboard per un libro o per un video, ispirate a Tamango, un film del 1959 che raccontava il viaggio di una nave di schiavi dall'Africa verso Cuba: il capitano sceglie una delle schiave come sua amante e a bordo scoppia una ribellione. «Mi sembrava che la nave fosse la metafora perfetta della vita: c'è una storia di passione, c'è la violenza, c'è l'ingenuità; nei miei disegni si vedono schiavi che si imbarcano ignari del loro destino: così anche oggi c'è chi non vede né la propria schiavitù né la sofferenza degli altri», spiega Kara.
In tutti i lavori compare l'alter ego bidimensionale della Walker, la «Negra Emancipata» che dà titolo alla mostra e a diverse opere, e che è insieme un simbolo di riscatto e di inconsapevolezza: la Walker si muove in questo spazio sottratto, tra la violenza dell'oppressore e la soggiacenza della vittima, la crudeltà del selvaggio e quella dell'uomo civilizzato, in quella che lei chiama «una turbolenza sotterranea» che si ripete lungo tutta la storia, fino a oggi, alle immagini della cronaca (anche italiana) che Kara ritaglia dai quotidiani e che diventano poi i tabù in controluce dei suoi video.
Kara Walker, You Do, 1993-94 (detail). Cut Paper on canvas. Courtesy the artist and Sikkema Jenkins & Co., New York
Un oceano che si fa persona e inghiotte degli uomini marchiati con la parola «black», che poi scivolano dentro un lungo intestino e vengono espulsi come feci; un amplesso omosessuale (che ha più a che fare con il potere che con il sesso) tra uno schiavo nero e il suo padrone bianco; neonati gettati via in una pozza di sangue non appena venuti alla luce.
Figure cartoonizzate, mosse dalle sue mani come marionette, girate in 16 millimetri e sgranate come i cortometraggi d'epoca: «La notorietà in un certo senso solidifica l'immagine di te, rischia di bloccare l'evoluzione della tua identità, ed è per questo che io cerco di frammentarla nuovamente ogni volta che entro in studio, usando tecniche diverse dalle solite».
Fonte
http://learn.walkerart.org/karawalker
Qui sotto alcune opere in mostra alla Fondazione Merz fino al 3 luglio 2011
Magazine Cultura
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