Magazine Animazione
Fine del terzo millennio. C'è un piccolo robot malandato, un esserino elettronico di ormai vecchia generazione, addetto all'assemblaggio e allo stoccaggio dei rifiuti lasciati dagli uomini sulla terra, prima della fuga. Il suo nome di fabbrica è Wall-e, ma, essendo l'unico esemplare rimasto del suo e di altri modelli, è diventato un nome proprio. Chiameremo pertanto lui Wall-e e lo seguiremo mentre assiste allo sbarco di una strana astronave e di un'elegantissima robottina - Eve, come la prima donna - alla ricerca della vita.
Ma, saliti che saremo sull'astronave che il regista Andrew Stanton ha allestito, metà Mago di Oz e metà 2001. Odissea nello spazio, scopriremo che Wall-e (2008) è molto più di un film ecologista, un inseguimento o una catena di citazioni. Questo lungometraggio della Pixar offre molti spunti di riflessione. Ma a me, adesso, preme ragionare su un aspetto: l'umanizzazione dei personaggi.
Wall-e e Eve, infatti, presentano tratti di un'umanità commovente: la goffissima tenerezza di lui e il carattere deciso, ma femminilissimo, di lei ricalcano dinamiche affettive e filmiche della più collaudata tradizione narrativa. Beninteso: la più recente animazione fiabesca manca di tutto, tranne che di personaggi simil-umani. Ma in Wall-e, prodotto artistico della migliore tecnologia, questo tratto è preponderante e non è difficile riconoscere nei caratteri dei due robot le fisionomie nostre o di persone che hanno attraversato la nostra vita. Infatti, a differenza di quanto accade con gli androidi, stigmatizzati da una radicale disumanità, i robot e altri personaggi non umani (penso soprattutto a Ratatouille o Scrat ne L'era glaciale) assumono virtù e difetti che siamo soliti assimilare alla più profonda essenza dell'essere umano.
Alla base di ciò, come in tutte le fiabe, c'è una precisa esigenza etica. Meno spirituale del dolcissimo Ortone, dove un trasporto religioso è trasparente, Wall-e indaga su quelli che sono i tratti dell'esistenza umana. L'identità di specie è garantita da alcuni tratti quali le emozioni, i sentimenti, l'affettività, tutto ciò che crea empatia e favorisce così il meccanismo metaforico. Su questo piano, Andrew Stanton - oltre a uno studio di primo piano sull'animazione e le luci - opera alcuni interventi di carattere cinematografico molto interessanti.
Intanto, le citazioni già sottolineate, unite a quelle di Matrix e di molti altri film di ogni genere, che non sono in grado di enumerare, allinea Wall-e a diversi film che hanno l'uomo per protagonista e oggetto di un discorso culturale più ampio. In secondo luogo, ma in stretta correlazione con il primo punto, l'organizzazione sociale del mondo da cui proviene Eve provvede a scansare ogni dubbio di predica ecologista fine a sé stessa.
Gli esseri che abitano questa dimensione in fuga dalla vita sono, al di là delle apparenze, in stretto rapporto l'uno con l'altro e il legame uomo-macchina è una forma già consolidata di rapporto di potere, che non fa pensare a un improvviso colpo di mano, ma a un legame ormai quasi connaturato. Trovo interessantissimo che l'officina-ospedale all'interno di questo orizzonte di benessere simulato pertenga sempre alla sfera intellettuale o cognitiva: in un mondo in cui non c'è il corpo umano a richiamare l'affinità tra l'uomo e la macchina, le malattie da cui sembrano affetti i robot ivi ricoverati sembrano tutte psichiatriche, disturbi del comportamento o dell'intelletto.
La simbiosi tra uomo e macchina si basa su una finzione di felicità, che questa deve dare a quello, illudendolo. Ma Wall-e, dal mio angolo visuale, è un film ottimista: nella devastazione abitata dal piccolo robot, una piccola creatura accompagna il protagonista, una blatta (che dà occasione per verificare i diversi algoritmi del movimento per le diverse creature del film), e la vegetazione sembra rinascere quando meno la si attende. La vita emerge nonostante tutto, la vita che si dava per spacciata: una vita di cui non si indaga la causa, una vita di cui non si comprendono le ragioni, una vita che non contempla la felicità quale suo specifico, e che anzi sembra spazzarne via l'esigenza. Ma una vita a cui ci si aggrappa, una vita che sorprende e che è fonte di una vera e propria rivoluzione, prima interiore e poi sociale.
La vita è la vera protagonista di questa divertente e tenera favola di giocattoli della Disney. Non l'ecologia - che non può mi ricorda la città Leonia di Calvino - e non la solitudine: bensì l'esperienza di essere umani. Quanto manca ancora ad essere uomini?
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