Magazine Cinema
(Wall Street: money never sleeps) Oliver Stone, 2010 (USA), 133'
uscita italiana: 22 ottobre 2010
voto su C.C.
L'assunto che il colpevole torna sempre sulla scena del crimine trova nuovi significati grazie ad Oliver Stone ed al suo Wall Street: Il denaro non dorme mai. Il cineasta americano infatti affronta per l'ennesima volta le consuete tematiche (strumentali) con banalità, stereotipi e una verve sempre meno apprezzabile. Il regista e la sua ultima opera sono un po' come quell'enorme telefono cellulare che, all'inizio del film, viene restituito al redivivo Gordon Gekko (Michael Douglas) da un impiegato della prigione nella quale era rinchiuso: un ventennio fa potevano anche avere un senso ma ora sono ridotti a simulacri vuoti e dal carisma sbiadito. Tra una metafora ad effetto e l'altra, ci viene raccontata la storia del giovane broker Jacob Moore (Shia LaBeouf) che nonostante sembri un bambino può già permettersi un attico a Manhattan, incassare bonus da milioni di dollari e progettare un futuro sereno con la fidanzata Winnie (Carey Mulligan). Solo che il mercato è perfido e i banchieri lo sono quasi di più: il turning point arriva presto quando la banca d'affari nella quale il giovane lavora rischia il fallimento ed il suo mentore (Frank Langella, immancabile personaggio da dedicare alla memoria del padre di Stone) si suicida teatralmente; è allora che fa il suo ingombrante ingresso in scena l'ottimo Gekko (incidentalmente, futuro suocero di Jacob) pronto a dimostrarsi ancora uno squalo di livello, seppur travestito da tonno – chiedo venia per la metafora ittica nella quale siamo rimasti intrappolati. In un tripudio di energia rinnovabile, finale a tarallucci e vino.
Quello che salta agli occhi durante la proiezione de Il denaro non dorme mai è proprio che il felice ricordo del suo predecessore (del quale avevamo già avuto modo di parlare) viene ridotto a brandelli in poche e sciatte sequenze; molti degli interrogativi lasciati giustamente in sospeso alla fine di Wall Street vengono liquidati rapidamente, con tanto di ritorno (molto, molto ridicolo) del personaggio interpretato dall'ormai imbolsito Charlie Sheen, che rinnega l'intero senso “morale” del primo film pronunciando due inutili battute. Ciò che resta sono gli occhi famelici di Gekko, ancora pronto a sacrificare ogni cosa in nome dell'avidità, oltre ad alcuni divertissement stilistici, con i quali Stone evidenzia il suo fondamentale disincanto nei confronti delle presunte tematiche “di denuncia”, che probabilmente neanche lui prende più sul serio – fanno parte del cast anche l'inappuntabile Josh Brolin ed Eli Wallach, icona dei western italiani. La quantità spropositata di cliché messi in scena rende conto della lunghezza del film (eterno in proporzione al contenuto) e contribuisce ad affossare definitivamente ogni interesse, perché priva la pellicola anche di quell'innegabile fascino ed originalità che avevano contraddistinto il capostipite – si arriva quasi a rimpiangere gli anni '80. Ogni proposito d'accusa, sommerso in tanto cattivo cinema, diventa sbiadito e poco incisivo, in un'atmosfera da soap opera. La "denuncia" è uno strumento scenico, come il telefonino grande quanto una cabina.
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