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Il 26 settembre di settant’anni fa moriva uno dei più importanti pensatori del Novecento: Walter Benjamin e ancora oggi la sua morte appare come un mistero. La vulgata comune lo vuole suicida con una dose letale di morfina sul confine tra Spagna e Francia nel momento in cui il filosofo si convince che per lui non c’è più niente da fare e che presto cadrà nelle mani naziste. Di sicuro c’è il luogo dove Benjamin trascorse le sue ultime ore di vita, l’Hotel de Francia a Port Bou, ma sulle modalità della sua morte molti ancora oggi sono gli interrogativi. Di certo Benjamin cercava di sfuggire alla “peste nera” del nazismo per approdare negli Stati Uniti dove l’aspettavano i suoi amici Horkheimer e Adorno (a quest’ultimo si deve la definizione di “vite mutilate” a proposito del vasto fenomeno dell’esilio europeo del Novecento in cui va inserito lo stesso Benjamin) ma provato nel fisico e nel morale dall’esilio e al tempo stesso dalla consapevolezza di una catastrofe individuale e collettiva, il filosofo tedesco si lascia inghiottire dalla morte.
Nei sette anni di esilio a Parigi, Walter Benjamin cerca di approfondire le sue teorie ripiegato su uno scranno della Biblioteque Nationale de France. Vive una esistenza al limite della sopportazione con pochi soldi in tasca in una solitudine che lo porta a passeggiare di notte lungo i boulevard parigini in un anonimato malinconico. Quello che lo spinge ad andare avanti sono gli innumerevoli carteggi con amici e conoscenti dispersi per il mondo in cui Benjamin trova alimento per i suoi studi. Lo studioso pervaso da una incapacità proverbiale a prendere decisioni di ordine materiale sente forte il sentimento di appartenenza alla cerchia degli “sconfitti” segnati dalla “sfortuna” e impiega giust’appunto sei anni per prendere la decisione di espatriare in America senza però riuscire nell’intento.
Come spesso accade quando si avvicinano ricorrenze di questo tipo molte sono le pubblicazioni riguardo al pensatore ebreo che troviamo in libreria in questi giorni; a me però piace ricordarlo e proporlo attraverso un bellissimo e significativo romanzo del 2001: “L’Angelo della Storia” di Bruno Arpaia edito da Guanda. E’ un romanzo in cui si intrecciano i destini di due personaggi Laureano Mahojo e Walter Benjamin in una notte del settembre 1940 in cima ai Pirenei. Laureano dopo aver combattuto nella guerra civile spagnola si trova a fare il contrabbandiere su queste montagne di confine l’altro è l’intellettuale ebreo che ha inseguito “la vita zoppicando, cercando di mascherare la sua inettitudine a viverla” che sta tentando di mettersi in salvo dai nazisti e fuggire a New York. Il combattente pieno di ideali e il raffinato saggista sono i due volti di quell’Europa che sarà spazzata via dal nazismo.
Walter Benjamin è stato un pensatore fra i più anomali del Novecento, un anticipatore di molte delle teorie contemporanee che governano le nostre vite. L’arte, la politica, la letteratura, la società in generale è attraversata per intero dalle sue analisi in cui si rileva una contraddizione tra il modo di svolgersi delle nostre esistenze e l’immiserimento della nostra esperienza (personale e sociale) ovvero oggi rispetto al passato siamo più poveri di realtà intrisi come siamo di virtuale e onirico.
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