Qualche giorno fa, lo studioso di politica estera americana Walter Russell Mead – uno dei più noti e quotati del settore – ha pubblicato sul suo blog Via Meadia un interessante saggio sulla politica estera “neo-ottomana” della Turchia. Il saggio è basato su di un azzardato parallelo con la “Grande idea” (Megali idea) della Grecia di Venizelos, il tentativo di ricostruire l’Impero bizantino con le armi in pugno che portò a una epica sconfitta da parte proprio dell’esercito guidato da Mustafa Kemal (poi Atatürk) e allo smantellamento di quel che restava della presenza greca in Anatolia: più che una “Grande idea”, una pessima idea quell’invasione. Secondo Mead, anche la Turchia di Erdoğan e Davutoğlu ha una “grande idea”: quella di ricostruire – non con le armi, ma col soft power – una sorta di nuovo impero ottomano, volgendo il suo sguardo a est. Beh, il parallelo decisamente non regge: la Megali idea – che comunque risale a molti decenni prima di Venizelos – era di natura irredentistica e non imperiale o neo-imperiale (il riferimento all’impero bizantino era pura propaganda), oltretutto era priva di quella dimensione trasformatrice – all’interno e al di fuori dei confini: risolvere i problemi coi vicini significa anche affrotare quelli posti dalle minoranze interne – insita nella politica estera della Turchia. Soprattutto, l’errore di Mead – ma nel suo saggio ci sono comunque spunti interessanti – è quello di interpretare l’attivismo della Turchia nelle sue periferie orientali – stranamente, non fa cenno ai Balcani ma solo agli stati a maggoranza islamica – come alternativo a tutto il resto; quando invece gli obiettivi di fondo sono stati esplicitamente e ripetutamente enunciati da Davutoğlu in persona: fare della Turchia il centro geopolitico del continente afro-euroasiatico, entrare nell’Unione europea entro il 2023, recuperare i legami (politici, economici, culturali) con gli stati ex ottomani, assumere una rilevanza globale. Insomma, una visione molto più articolata di quella tratteggiata da Mead.