Sono reduce dalla visione di War Horse, il nuovo film di Steven Spielberg.
Il motivo principale per cui il trailer di questo film mi aveva colpito al cuore e nutrivo grandissime aspettative è tutto racchiuso nel minuto 1 e 41 secondi.
Avete presente il primo piano del cavallo Joey?!?
Quell’espressione intensa, consapevole e vagamente intrepida?!
Ebbene, è più o meno la stessa espressione che ha il mio cavallo Sero quando si gira a controllare se per caso sono andata a prendere il suo barattolo dei biscotti o sto tagliando a fettine una mela apposta per lui.
E così sono andata al cinema senza mettere il mascara, rassegnata all’idea di piangere per 146 minuti consecutivi. Sfortunatamente però il primo tempo di War Horse si è rivelato così mortalmente noioso da affossare non poco la mia emotività e sono arrivata al secondo tempo tra uno sbadiglio e l’altro.
Il romanzo di Michael Morpurgo, da cui il film è tratto, aveva una caratteristica particolarmente originale che non è stato possibile mantenere sullo schermo: quella di narrare la storia attraverso il punto di vista del cavallo, le sue emozioni e i suoi “pensieri”.
E’ evidente come fosse possibile mantenere solo in minima parte il point of view equino sul grande schermo e purtroppo, persa questa caratteristica, War Horse si è inevitabilmente ridotto ad un film di guerra come tanti altri: un soldato Ryan più lieve e dolce amaro, girato fortunatamente alla vecchia maniera, senza 3D ed altre inutili diavolerie, ma con tutti i luoghi comuni del caso. Il peggiore di tutti quello dovuto al doppiaggio, che ha trasformato l’esercito tedesco in una sorta di macchietta alla Sturmtruppen.
Rimane comunque apprezzabile e degno di rispetto l’intento di Spielberg di dare voce agli eroi inconsapevoli e per lo più dimenticati della Grande Guerra: i quattro milioni di cavalli rimasti sul campo. Questo film è, in un certo senso, un atto d’amore per loro.