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Wara no tate ( 藁の楯, Shield of Straw). Regia: Miike Takashi. Sceneggiatura: Hayashi Tamio. Soggetto: Kiuchi Kazuhiro. Montaggio: Yamashita Kenji. Fotografia: Kita Nobuyasu. Musiche: Endo Koji. Scenografia: Hayashida Yuji. Interpreti: Osawa Takao, Matsushima Nanako, Fujiwara Tatsuya, Yo Kimiko, Kishitani Goro. Produzione: NTV, Warner Bros. Pictures Japan, OLM, KODANSHA, YTV, Yahoo! JAPAN, East Japan Marketing & Communications, Inc./ STV, MMT, SDT, CTV, HTV, FBS. Durata: 125’. Uscita nelle sale giapponesi: 26 aprile 2013.
Presentato in concorso al 66esimo Festival di Cannes
Link: Sito ufficiale - Festival di Cannes
Punteggio ★★
Su tutte le pagine dei maggiori quotidiani esce un annuncio impressionante. Si tratta di una vera e propria taglia sulla testa di un serial killer la cui ultima vittima è la nipote del miliardario che ha deciso di farsi giustizia pagando una cifra enorme a chi ucciderà Kunihide Kiyomaru, ma regalando soldi anche a chi semplicemente ci proverà. Immediatamente l’assassino diventa bersaglio per milioni di persone e l’unica via di uscita per lui è quella di consegnarsi spontaneamente alla Polizia di Fukuoka, che deve organizzarsi per portare il detenuto sano e salvo a Tokyo. Inizia, così, una vera e propria caccia all’uomo, che porterá la squadra di poliziotti cui viene affidato il caso a rischiare la vita per un pluriomicida destinato probabilmente alla massima pena.
Insolito film, Wara no tate, per il prolifico Miike Takashi che, se da un lato sembra strizzare l’occhio all’action movie hollywoodiano, dall’altro si pone come un racconto morale (il film si ispira ad un romanzo di Kiuchi Kazuhiro) sulla capacità degli uomini di restare fedele ai propri valori. “Il senso del dovere - dice il regista - è un tema importante, anche se non è quello principale. Quella che ho voluto raccontare è una storia di criminali e poliziotti, ma al contempo un racconto su esseri umani che hanno una famiglia, dei genitori, dei figli, proprio come l’assassino”. Una dichiarazione utile per decifrare questo film, opera incoerente nel suo stare sempre in bilico tra la frenesia del genere e la riflessione più esistenziale sui personaggi, la necessità dello spettacolo gigantesco (con esplosioni e scontri paradossali lungo la strada, violenti conflitti a fuoco e spargimenti copiosi di sangue) e l’analisi intima del comportamento umano, messo a durissima prova dalla natura malvagia del prigioniero. Perché la missione dei poliziotti di proteggere un serial-killer entra presto in conflitto con riflessioni che vanno oltre la sete di denaro o il desiderio di vendetta. Che senso può avere mettere a repentaglio la vita di molti per proteggere quella di un assassino?
Su questo si dibatte Miike per oltre due ore di film, portando all’esasperazione ogni gesto e ogni scena, finendo, però, vittima di una ripetizione che spegne la tensione e l’efficacia del discorso. Un inseguimento al contrario dove si moltiplicano gli stereotipi e tutto diventa stancamente prevedibile, una corsa contro il tempo che si insinua dentro paeaggi diversi, dalla folla del treno alla solitudine delle strade di campagna, senza mai abbandonare gli schemi di partenza e quindi senza riuscire a regalare alcuna sorpresa. E si moltiplicano anche i finali, in questo film che sembra non voler giungere a conclusione, sfiorando il retorico nell’enfasi eccessiva di voler troppo mostrare e troppo raccontare. [Grazia Paganelli]
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